Cielo bambino
di Alessandro Riccioni e Alicia Baladan, 2011
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«Alba bell'alba che sali piano, il mare e il cielo si danno la mano». Cielo bambino comincia con questi versi ed elegge il sorgere del sole a momento creativo per eccellenza anche per il sorgere delle parole e delle figure. A quell'ora, il mondo inizia il viaggio di luce e tempo che accompagna l'umanità da mane a sera. È così da quando la storia dell'uomo era una bambina appena nata e adesso, che l'universo ha dietro di sé milioni di anni, nulla è cambiato. Di fronte a tanto splendore solitamente la parola viene meno, se invece ti chiami Alessandro Riccioni e Alicia Baladan, può accadere di mettersi a scrivere oppure a disegnare, può accadere di concepire un libro. Spetterebbe a oggetti come Cielo bambino tenere a battesimo i lettori nel loro primo incontro con la parola scritta e la parola dipinta. [...] Il linguaggio che Riccioni e Baladan praticano, cioè la poesia, è lo spauracchio di molti adulti che considerano un libro di poesie l'esperienza di lettura più elitaria e difficile. Nel libro di cui stiamo parlando l'infanzia è nelle condizioni di scoprire cos'è la poesia al riparo da pregiudizi e strutture logiche e grammaticali farraginose e oscure, queste ultime sì ideali per nascondere e confondere il volto della poesia. Il lessico di Riccioni è ripulito da trucchi, ambivalenze, ermetismo. Su queste pagine il nero è nero, il fumo è fumo, il gessetto è gessetto, lo sporco è sporco, i buchi sono buchi, la paura è paura, la banana è banana, il sopra è sopra, il sotto è sotto, e via dicendo. «Nero di fumo | senza l'arrosto | nero di seppia | senza aragosta | nero lavagna | senza gessetto | nero di sporco | dentro il cassetto | nero di oggi | senza domani | nero di pianto | senza allegria | nero di tutto | vattene via!»
[...] Alicia Baladan crea mondi paralleli, forte di un passato di scenografa e regista di film di animazione, discipline in cui costruire scene dal nulla e dare il senso di movimento è fondamentale.
La percezione, insieme all'ascolto, si confà alla lettura di questo libro. «Ciò che percepisco», ha scritto Fabio Pusterla «mi conduce in nuove zone sconosciute, come se l'effetto della percezione non fosse il riconoscimento, ma lo smarrimento: senza smarrimento, del resto, come sperare di trovare qualcosa?» Le illustrazioni di Alicia Baladan sorvolano precisamente queste zone interiori, le stesse che hanno suscitato l'avvento di paesaggi sempre al limite tra realismo e surrealismo. [...]
Il cielo, da qualunque prospettiva lo guardiamo, è immenso e immensa è la sproporzione tra i suoi misteri e le nostre verità. Riccioni e Baladan puntano non si lasciano scivolare sotto i piedi l'occasione di colloquiare a tu per tu con l'universo, anche se esso, logicamente, risponde con voce propria, non con corde umane. Con le costellazioni, il vento, le nuvole, la notte, il buio, la luna, il sole, le comete, dialogano professionisti nel campo delle scienze e persone qualunque, fare un elenco di chi si occupa di cieli rende l'idea dell'ampiezza di interessi e competenze che scaturiscono dal cosmo. Pensiamo ai marinai, ai pastori, ai filosofi, agli astronomi, ai metereologi, ai teologi, ai fisici, ai mistici, ai poeti, ai cineasti, agli astrologi, ai compositori, ai pittori, ai pianisti, ai produttori di biscotti, chiunque di loro, a suo modo, impressionato e sedotto dal disordine armonico della volta celeste e dagli abiti che indossa. Scoperto questo, viene terribilmente a noia interpellare il cielo solo per conoscere l'oroscopo o informarsi sulle previsioni. I bambini hanno curiosità profonde che la lettura del cielo alimenta e che Cielo bambino incoraggia a venire in superficie.
Da All'alba bell'alba, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2011.
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«Alba bell'alba che sali piano, il mare e il cielo si danno la mano». Cielo bambino comincia con questi versi ed elegge il sorgere del sole a momento creativo per eccellenza anche per il sorgere delle parole e delle figure. A quell'ora, il mondo inizia il viaggio di luce e tempo che accompagna l'umanità da mane a sera. È così da quando la storia dell'uomo era una bambina appena nata e adesso, che l'universo ha dietro di sé milioni di anni, nulla è cambiato. Di fronte a tanto splendore solitamente la parola viene meno, se invece ti chiami Alessandro Riccioni e Alicia Baladan, può accadere di mettersi a scrivere oppure a disegnare, può accadere di concepire un libro. Spetterebbe a oggetti come Cielo bambino tenere a battesimo i lettori nel loro primo incontro con la parola scritta e la parola dipinta. [...] Il linguaggio che Riccioni e Baladan praticano, cioè la poesia, è lo spauracchio di molti adulti che considerano un libro di poesie l'esperienza di lettura più elitaria e difficile. Nel libro di cui stiamo parlando l'infanzia è nelle condizioni di scoprire cos'è la poesia al riparo da pregiudizi e strutture logiche e grammaticali farraginose e oscure, queste ultime sì ideali per nascondere e confondere il volto della poesia. Il lessico di Riccioni è ripulito da trucchi, ambivalenze, ermetismo. Su queste pagine il nero è nero, il fumo è fumo, il gessetto è gessetto, lo sporco è sporco, i buchi sono buchi, la paura è paura, la banana è banana, il sopra è sopra, il sotto è sotto, e via dicendo. «Nero di fumo | senza l'arrosto | nero di seppia | senza aragosta | nero lavagna | senza gessetto | nero di sporco | dentro il cassetto | nero di oggi | senza domani | nero di pianto | senza allegria | nero di tutto | vattene via!»
[...] Alicia Baladan crea mondi paralleli, forte di un passato di scenografa e regista di film di animazione, discipline in cui costruire scene dal nulla e dare il senso di movimento è fondamentale.
La percezione, insieme all'ascolto, si confà alla lettura di questo libro. «Ciò che percepisco», ha scritto Fabio Pusterla «mi conduce in nuove zone sconosciute, come se l'effetto della percezione non fosse il riconoscimento, ma lo smarrimento: senza smarrimento, del resto, come sperare di trovare qualcosa?» Le illustrazioni di Alicia Baladan sorvolano precisamente queste zone interiori, le stesse che hanno suscitato l'avvento di paesaggi sempre al limite tra realismo e surrealismo. [...]
Il cielo, da qualunque prospettiva lo guardiamo, è immenso e immensa è la sproporzione tra i suoi misteri e le nostre verità. Riccioni e Baladan puntano non si lasciano scivolare sotto i piedi l'occasione di colloquiare a tu per tu con l'universo, anche se esso, logicamente, risponde con voce propria, non con corde umane. Con le costellazioni, il vento, le nuvole, la notte, il buio, la luna, il sole, le comete, dialogano professionisti nel campo delle scienze e persone qualunque, fare un elenco di chi si occupa di cieli rende l'idea dell'ampiezza di interessi e competenze che scaturiscono dal cosmo. Pensiamo ai marinai, ai pastori, ai filosofi, agli astronomi, ai metereologi, ai teologi, ai fisici, ai mistici, ai poeti, ai cineasti, agli astrologi, ai compositori, ai pittori, ai pianisti, ai produttori di biscotti, chiunque di loro, a suo modo, impressionato e sedotto dal disordine armonico della volta celeste e dagli abiti che indossa. Scoperto questo, viene terribilmente a noia interpellare il cielo solo per conoscere l'oroscopo o informarsi sulle previsioni. I bambini hanno curiosità profonde che la lettura del cielo alimenta e che Cielo bambino incoraggia a venire in superficie.
Da All'alba bell'alba, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2011.
La bambina di neve
di Nathaniel Hawthorne e Kiyoko Sakata, 2007
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La bambina di neve. Un miracolo infantile fa parte della collana “Fiabe quasi classiche”[...]. Si tratta, infatti, di un racconto scritto nella prima metà dell’Ottocento, da un autore considerato, con Edgar Allan Poe, Herman Melville e Mark Twain, il fondatore della letteratura americana: Nathaniel Hawthorne (1804-1864). Kiyoko Sakata è un’illustratrice giapponese, nata nel 1974; La bambina di neve. Un miracolo infantile è la sua opera prima.
Una breve nota, alla fine del libro, è utile sia a chi legge Hawthorne per la prima volta, sia a chi, pur conoscendolo, poco sapeva o ricordava di questo racconto e del contesto in cui fu scritto: «quando leggiamo La bambina di neve, i due protagonisti, Violetta e Papavero ci ricordano i figli di Hawthorne come nei suoi diari li troviamo descritti, per carattere e aspetto fisico. Sono loro, vivaci e intelligenti, che vediamo giocare; loro, pieni di fantasia, capaci di dare vita all’impossibile.» È una precisazione interessante, rivolta all’attenzione dei genitori e, in generale, degli adulti. Professione e paternità, maturità e infanzia, nella figura di Hawthorne si sommano in modo virtuoso, lanciando sia ai bambini che agli adulti – in modalità assai diverse – un messaggio di speranza. «Hawthorne era padre di una bambina, Una, e di un bambino, Julian. Amava molto osservarli. Lo sappiamo perché nei taccuini dello scrittore – pagine e pagine in cui annotava pensieri, stati d’animo, descrizioni di paesaggi, storie – molto spazio è dedicato proprio a loro. Hawthorne riportava i loro dialoghi, le loro riflessioni, le loro scoperte, le loro domande.».
Leggendo La bambina di neve. Un miracolo infantile, il lettore bambino veste i panni di chi, bambino nella finzione narrativa, ha voglia di uscire di casa per andare a giocare in giardino, nella neve fresca, e dare vita a un’esperienza miracolosa, magica, da cui gli adulti sono esclusi. L’ardore che accompagna la richiesta di uscire all’aria aperta e di giocare, si fissa, visivamente, nell’espressione radiosa di Papavero e Violetta e nel gesto implorante delle loro mani. [...] L’uso di immagini in bianco e nero, entro sottili margini bianchi, intervalla lunghe parti di testo ed è un richiamo alle fotografie d’epoca che Kiyoko Sakata non fa mistero di avere studiato attentamente, prima di mettere mano al racconto. Su queste tavole, interni e abbigliamento, citano il periodo storico in cui fu scritto il racconto (prima metà dell’Ottocento) e l’atmosfera intima, domestica, che lo produsse. Tra nero e bianco, la gamma delle sfumature di grigio esalta la luminosità del paesaggio invernale e descrive passaggi continui fra luce e tenebra. [...] Madri e padri che leggano ai propri figli La bambina di neve. Un miracolo infantile, si rispecchieranno nell’impossibilità dei signori Lindsey di capire fino i fondo i giochi dei loro bambini. [...] Nel giardino di casa i due bambini daranno vita a una sorella immaginaria, fatta di luce e neve. Loro la creano, i genitori la disfano. Una storia senza lieto fine, sulla potenza visionaria dell’infanzia e i limiti esistenti nella comunicazione tra bambini e adulti.
Da Un fatto di ordinaria distanza, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2007.
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La bambina di neve. Un miracolo infantile fa parte della collana “Fiabe quasi classiche”[...]. Si tratta, infatti, di un racconto scritto nella prima metà dell’Ottocento, da un autore considerato, con Edgar Allan Poe, Herman Melville e Mark Twain, il fondatore della letteratura americana: Nathaniel Hawthorne (1804-1864). Kiyoko Sakata è un’illustratrice giapponese, nata nel 1974; La bambina di neve. Un miracolo infantile è la sua opera prima.
Una breve nota, alla fine del libro, è utile sia a chi legge Hawthorne per la prima volta, sia a chi, pur conoscendolo, poco sapeva o ricordava di questo racconto e del contesto in cui fu scritto: «quando leggiamo La bambina di neve, i due protagonisti, Violetta e Papavero ci ricordano i figli di Hawthorne come nei suoi diari li troviamo descritti, per carattere e aspetto fisico. Sono loro, vivaci e intelligenti, che vediamo giocare; loro, pieni di fantasia, capaci di dare vita all’impossibile.» È una precisazione interessante, rivolta all’attenzione dei genitori e, in generale, degli adulti. Professione e paternità, maturità e infanzia, nella figura di Hawthorne si sommano in modo virtuoso, lanciando sia ai bambini che agli adulti – in modalità assai diverse – un messaggio di speranza. «Hawthorne era padre di una bambina, Una, e di un bambino, Julian. Amava molto osservarli. Lo sappiamo perché nei taccuini dello scrittore – pagine e pagine in cui annotava pensieri, stati d’animo, descrizioni di paesaggi, storie – molto spazio è dedicato proprio a loro. Hawthorne riportava i loro dialoghi, le loro riflessioni, le loro scoperte, le loro domande.».
Leggendo La bambina di neve. Un miracolo infantile, il lettore bambino veste i panni di chi, bambino nella finzione narrativa, ha voglia di uscire di casa per andare a giocare in giardino, nella neve fresca, e dare vita a un’esperienza miracolosa, magica, da cui gli adulti sono esclusi. L’ardore che accompagna la richiesta di uscire all’aria aperta e di giocare, si fissa, visivamente, nell’espressione radiosa di Papavero e Violetta e nel gesto implorante delle loro mani. [...] L’uso di immagini in bianco e nero, entro sottili margini bianchi, intervalla lunghe parti di testo ed è un richiamo alle fotografie d’epoca che Kiyoko Sakata non fa mistero di avere studiato attentamente, prima di mettere mano al racconto. Su queste tavole, interni e abbigliamento, citano il periodo storico in cui fu scritto il racconto (prima metà dell’Ottocento) e l’atmosfera intima, domestica, che lo produsse. Tra nero e bianco, la gamma delle sfumature di grigio esalta la luminosità del paesaggio invernale e descrive passaggi continui fra luce e tenebra. [...] Madri e padri che leggano ai propri figli La bambina di neve. Un miracolo infantile, si rispecchieranno nell’impossibilità dei signori Lindsey di capire fino i fondo i giochi dei loro bambini. [...] Nel giardino di casa i due bambini daranno vita a una sorella immaginaria, fatta di luce e neve. Loro la creano, i genitori la disfano. Una storia senza lieto fine, sulla potenza visionaria dell’infanzia e i limiti esistenti nella comunicazione tra bambini e adulti.
Da Un fatto di ordinaria distanza, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2007.
Casa di fiaba
di Giovanna Zoboli e Anna Emilia Laitinen, 2013
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Casa di fiaba è poesia. Pensiero e occhi vagabondano per trentadue pagine, tra il corpo di case visibili e quello di una casa ulteriore, invisibile, la cui identità è segreta fino al verso finale, dove viene chiamata ”me”. Perché i modi di abitare sono innumerevoli, ma potenzialmente infiniti i modi di essere abitati ed essere sé. Le case sono luoghi fisici e simbolici. Tanto anonimi quanto particolari. Vi abitano persone, idee, immagini, parole, spiriti, con i quali ciascuna persona, fin dalla culla, elabora discorsi, costruisce storie necessariamente personali. Casa di fiaba, scritto da Giovanna Zoboli e illustrato da Anna Emilia Laitinen per la collana Parola magica, nomina e mostra null'altro che case, a cominciare da quella più frequentata della letteratura per l’infanzia: la casa di fiaba.
I primi sei versi rendono omaggio a questa tipologia: «Casa di fiaba, | casa stregata. | Casa di foglie | e di rami, di nebbia. Casa che brucia, | casa incantata». Quante volte le case di fiaba ci hanno avvinti al loro mistero? Costruite nel bosco, riconoscibili a distanza, ravvivate dal fumo di un camino inesorabilmente acceso, abitate da presenze magiche. Sono case di fiaba la casina dei biscotti, in Hansel e Gretel; una casa poverissima da abbandonare presto, in Pollicino; la casa accogliente e fuori scala dei Sette Nani e quella della strega in Biancaneve; la casa della nonna, casa trappola, nella fiaba di Cappuccetto Rosso. Via di questo passo, il catalogo delle case di fiaba potrebbe assumere proporzioni maggiori e imporsi all'attenzione dei lettori più giovani in concomitanza con la scoperta del piacere di leggere poesia. È in una parola, una soltanto, che il libro si dà per intero. La parola “casa”, una parola-luogo, letteralmente. Un continente, un nuovo mondo, per chi scopre qui che cos'è la poesia. [...] L'autrice sposa e trasmette un'idea elementare, da condividere: la poesia è una casa di parole. Casa di fiaba è una poesia da leggere, ma anche da inventare e scrivere da capo. Zoboli spalanca senza indugi la porta del suo studio di scrittura e offre, a chi volesse sperimentare, il metodo per comporre un testo a partire da una cellula verbale.
Anna Emilia Laitinen suggerisce di praticare la variazione sul tema come ginnastica di stile e gioco di forme, anch’essi implicati con la padronanza e la ricchezza lessicale.[...] Non c'è traccia di figura umana in queste immagini. Dove sono tutti? Per quale motivo non si manifestano? Chi potrebbe abitare nella «casa di fuoco», chi nella «casa di vetro», chi nella «casa che corre», chi nella «casa scoppiata», chi nella «casa futura», chi nella «casa vestito», chi nella «casa di dentro»? È lasciato ai lettori formulare ipotesi sul conto degli abitanti di Casa di fiaba. Salutare il lettore con una serie di enigmi è un dono che onora l'intelligenza dell'infanzia e incorona chi esercita senza reticenza la facoltà di interpretare
Da Sono casa, sono me, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2013.
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Casa di fiaba è poesia. Pensiero e occhi vagabondano per trentadue pagine, tra il corpo di case visibili e quello di una casa ulteriore, invisibile, la cui identità è segreta fino al verso finale, dove viene chiamata ”me”. Perché i modi di abitare sono innumerevoli, ma potenzialmente infiniti i modi di essere abitati ed essere sé. Le case sono luoghi fisici e simbolici. Tanto anonimi quanto particolari. Vi abitano persone, idee, immagini, parole, spiriti, con i quali ciascuna persona, fin dalla culla, elabora discorsi, costruisce storie necessariamente personali. Casa di fiaba, scritto da Giovanna Zoboli e illustrato da Anna Emilia Laitinen per la collana Parola magica, nomina e mostra null'altro che case, a cominciare da quella più frequentata della letteratura per l’infanzia: la casa di fiaba.
I primi sei versi rendono omaggio a questa tipologia: «Casa di fiaba, | casa stregata. | Casa di foglie | e di rami, di nebbia. Casa che brucia, | casa incantata». Quante volte le case di fiaba ci hanno avvinti al loro mistero? Costruite nel bosco, riconoscibili a distanza, ravvivate dal fumo di un camino inesorabilmente acceso, abitate da presenze magiche. Sono case di fiaba la casina dei biscotti, in Hansel e Gretel; una casa poverissima da abbandonare presto, in Pollicino; la casa accogliente e fuori scala dei Sette Nani e quella della strega in Biancaneve; la casa della nonna, casa trappola, nella fiaba di Cappuccetto Rosso. Via di questo passo, il catalogo delle case di fiaba potrebbe assumere proporzioni maggiori e imporsi all'attenzione dei lettori più giovani in concomitanza con la scoperta del piacere di leggere poesia. È in una parola, una soltanto, che il libro si dà per intero. La parola “casa”, una parola-luogo, letteralmente. Un continente, un nuovo mondo, per chi scopre qui che cos'è la poesia. [...] L'autrice sposa e trasmette un'idea elementare, da condividere: la poesia è una casa di parole. Casa di fiaba è una poesia da leggere, ma anche da inventare e scrivere da capo. Zoboli spalanca senza indugi la porta del suo studio di scrittura e offre, a chi volesse sperimentare, il metodo per comporre un testo a partire da una cellula verbale.
Anna Emilia Laitinen suggerisce di praticare la variazione sul tema come ginnastica di stile e gioco di forme, anch’essi implicati con la padronanza e la ricchezza lessicale.[...] Non c'è traccia di figura umana in queste immagini. Dove sono tutti? Per quale motivo non si manifestano? Chi potrebbe abitare nella «casa di fuoco», chi nella «casa di vetro», chi nella «casa che corre», chi nella «casa scoppiata», chi nella «casa futura», chi nella «casa vestito», chi nella «casa di dentro»? È lasciato ai lettori formulare ipotesi sul conto degli abitanti di Casa di fiaba. Salutare il lettore con una serie di enigmi è un dono che onora l'intelligenza dell'infanzia e incorona chi esercita senza reticenza la facoltà di interpretare
Da Sono casa, sono me, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2013.
Ti faccio a pezzetti
di Chiara Armellini, 2012
20,00 | Acquistalo su Topishop
Ti faccio a pezzetti è un libro basato sull'esperienza dello smontaggio e del montaggio. Chiara Armellini, durante i suoi laboratori con i bambini nelle scuole dell'infanzia e primaria, fa questo: chiede a ciascuno di scegliere una figura, di disegnarla, di scomporla in forme geometriche elementari, di ritagliare i pezzi ricavati e di ricomporre da lì la figura intera. Sembra un puzzle, ma non lo è. Ti faccio a pezzetti, è un gioco di incastri. Tuttavia, rimane aperto un numero incalcolabile di possibilità di combinazioni. Provare ad applicare quello che stiamo dicendo dimostra che nessuna figura è fissa una volta per tutte. I pezzi che formano la giraffa, potrebbero funzionare per fare un pappagallo. Tenuto fermo lo stesso principio compositivo, quelli che formano l'armadillo, potrebbero trasformare completamente lo scenario e diventare una spiaggia di sassi; quelli che formano il leone, essere adatti per figure floreali, ad esempio gigli, girasoli. Sarebbe interessante per bambini e adulti, soffermarsi su un unico soggetto e trarre da esso quante più variazioni possibili.
Secondo J. Huizinga, autore di un classico dell'antropologia intitolato Homo ludens (Einaudi, 1973), «al gioco partecipa qualcosa che oltrepassa l'immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso nell'azione del giocare. Ogni gioco significa qualche cosa.» Qualche decennio più tardi, Enzo Mari scriverà che «tutto ciò che viene realizzato per il gioco dei bambini deve essere progettato tenendo presente che scoprire il mondo e ricavarne il proprio comportamento è lo stato dell'infanzia. […] Oggi, per il progettista, questo tipo di intervento resta una delle poche possibilità di contribuire realmente al rinnovamento della società.» (E. Battisti, G. Dorfles, M. Loriga, I giochi per bambini di Enzo Mari, All'insegna del pesce d'oro, 1969). Ti faccio a pezzetti si riallaccia a questi discorsi e si propone d'essere, come è scritto in quarta di copertina, «libro per giocare e per inventare nuovi giochi».
Ogni aspetto della progettazione e della realizzazione, per giungere a compimento, ha attraversato l'esperienza ludica. Il gioco di Ti faccio a pezzetti interessa le forme, i colori, i caratteri tipografici, la grafica, gli stampi, le parole, i suoni, i soggetti iconografici. Con questi elementi hanno giocato Chiara Armellini (autrice di testo e illustrazioni) e Marina Del Cinque (grafica). Insieme hanno ottenuto un albo illustrato che saprà fungere anche da laboratorio: di pittura, stampa, costruzione, musica, movimento. Per questo Ti faccio a pezzetti è un libro indicato per chi opera nel mondo della scuola, delle ludoteche, delle sezioni didattiche dei musei, delle scuole di circo.
Da Leggere e giocare, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2012.
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Ti faccio a pezzetti è un libro basato sull'esperienza dello smontaggio e del montaggio. Chiara Armellini, durante i suoi laboratori con i bambini nelle scuole dell'infanzia e primaria, fa questo: chiede a ciascuno di scegliere una figura, di disegnarla, di scomporla in forme geometriche elementari, di ritagliare i pezzi ricavati e di ricomporre da lì la figura intera. Sembra un puzzle, ma non lo è. Ti faccio a pezzetti, è un gioco di incastri. Tuttavia, rimane aperto un numero incalcolabile di possibilità di combinazioni. Provare ad applicare quello che stiamo dicendo dimostra che nessuna figura è fissa una volta per tutte. I pezzi che formano la giraffa, potrebbero funzionare per fare un pappagallo. Tenuto fermo lo stesso principio compositivo, quelli che formano l'armadillo, potrebbero trasformare completamente lo scenario e diventare una spiaggia di sassi; quelli che formano il leone, essere adatti per figure floreali, ad esempio gigli, girasoli. Sarebbe interessante per bambini e adulti, soffermarsi su un unico soggetto e trarre da esso quante più variazioni possibili.
Secondo J. Huizinga, autore di un classico dell'antropologia intitolato Homo ludens (Einaudi, 1973), «al gioco partecipa qualcosa che oltrepassa l'immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso nell'azione del giocare. Ogni gioco significa qualche cosa.» Qualche decennio più tardi, Enzo Mari scriverà che «tutto ciò che viene realizzato per il gioco dei bambini deve essere progettato tenendo presente che scoprire il mondo e ricavarne il proprio comportamento è lo stato dell'infanzia. […] Oggi, per il progettista, questo tipo di intervento resta una delle poche possibilità di contribuire realmente al rinnovamento della società.» (E. Battisti, G. Dorfles, M. Loriga, I giochi per bambini di Enzo Mari, All'insegna del pesce d'oro, 1969). Ti faccio a pezzetti si riallaccia a questi discorsi e si propone d'essere, come è scritto in quarta di copertina, «libro per giocare e per inventare nuovi giochi».
Ogni aspetto della progettazione e della realizzazione, per giungere a compimento, ha attraversato l'esperienza ludica. Il gioco di Ti faccio a pezzetti interessa le forme, i colori, i caratteri tipografici, la grafica, gli stampi, le parole, i suoni, i soggetti iconografici. Con questi elementi hanno giocato Chiara Armellini (autrice di testo e illustrazioni) e Marina Del Cinque (grafica). Insieme hanno ottenuto un albo illustrato che saprà fungere anche da laboratorio: di pittura, stampa, costruzione, musica, movimento. Per questo Ti faccio a pezzetti è un libro indicato per chi opera nel mondo della scuola, delle ludoteche, delle sezioni didattiche dei musei, delle scuole di circo.
Da Leggere e giocare, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2012.
Senza TV
di Guillaume Guéraud, 2011
10,00 | Acquistalo su Topishop
Ogni tanto c' è qualcuno che dà il cinema per morto, naturalmente a favore della tv. [...] Per questo chi ama il cinema dovrebbe tenersi stretto un «piccolo» libro pubblicato da una «piccola» casa editrice per bambini, Topipittori: si intitola Senza Tv (pp. 98, 10, traduzione Massimo Scotti) e racconta l' infanzia autobiografica di Guillaume Guéraud, autore di romanzi noir e polizieschi per adolescenti (in Francia è una vera celebrità). È un libro da leggere non solo perché è divertente, ha un ritmo prodigioso, è intelligente, ma perché è una delle più belle dichiarazioni d' amore per il cinema (e per la vita) che ho letto. Il piccolo Guillaume vive solo con la madre (del padre non sa niente, tanto che per un po' crede di essere figlio di Montgomery Clift, perché c' è una sua fotografia sulla libreria) e con uno zio sindacalista e comunista. Siamo a Bordeaux, in un quartiere multietnico negli anni Settanta, e tutti gli amici di Guillaume hanno la televisione. Lui no: la mamma la detesta e lo zio dice che a guardarla «si diventa un coglione». Per questo, per tacitare le lamentale del figlio, comincia a portarselo al cinema. Non sono film per bambini: «Non capisco neanche un terzo delle cose che mi passano davanti agli occhi - scrive Guéraud - però mi piace». E continua: «Non è una noia così insopportabile che proprio non riesco a star fermo come quella volta a teatro, no. È una noia piena di soprassalti, spezzata da fulmini, tutta fatta di ami incandescenti a cui mi aggrappo senza mollare mai». Agli amici racconta riassunti inverosimili (quello di Mon oncle d' Amerique di Resnais è un capolavoro surreale) ma pian piano impara che quegli «ami incandescenti» lo aiutano a crescere, a conoscere il mondo che lo circonda, a esercitare la fantasia, a capire la storia e la politica. E si accorge che il cinema, oltre che divertirlo, lo aiuta a vivere. È quello che, in maniere più scanzonata, ci ricordano anche Emanuela Martini e gli amici con cui ha scritto Che cosa guardo stasera? (Il castoro, pp. 194, 15). Non è solo un divertente manuale di «cineterapia» per usare i film come consolazione serale in ogni tipo di occasione: è anche, a leggere le belle schede di accompagnamento, un modo per riannodare i legami tra cinema e realtà e scoprire dentro a film «ingessati» dall' accademia o dalla cinefilia quegli «ami incandescenti» di cui parla Guéraud.
Da La vita è bella anche se non hai la tv. Basta il cinema di Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 2011.
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Ogni tanto c' è qualcuno che dà il cinema per morto, naturalmente a favore della tv. [...] Per questo chi ama il cinema dovrebbe tenersi stretto un «piccolo» libro pubblicato da una «piccola» casa editrice per bambini, Topipittori: si intitola Senza Tv (pp. 98, 10, traduzione Massimo Scotti) e racconta l' infanzia autobiografica di Guillaume Guéraud, autore di romanzi noir e polizieschi per adolescenti (in Francia è una vera celebrità). È un libro da leggere non solo perché è divertente, ha un ritmo prodigioso, è intelligente, ma perché è una delle più belle dichiarazioni d' amore per il cinema (e per la vita) che ho letto. Il piccolo Guillaume vive solo con la madre (del padre non sa niente, tanto che per un po' crede di essere figlio di Montgomery Clift, perché c' è una sua fotografia sulla libreria) e con uno zio sindacalista e comunista. Siamo a Bordeaux, in un quartiere multietnico negli anni Settanta, e tutti gli amici di Guillaume hanno la televisione. Lui no: la mamma la detesta e lo zio dice che a guardarla «si diventa un coglione». Per questo, per tacitare le lamentale del figlio, comincia a portarselo al cinema. Non sono film per bambini: «Non capisco neanche un terzo delle cose che mi passano davanti agli occhi - scrive Guéraud - però mi piace». E continua: «Non è una noia così insopportabile che proprio non riesco a star fermo come quella volta a teatro, no. È una noia piena di soprassalti, spezzata da fulmini, tutta fatta di ami incandescenti a cui mi aggrappo senza mollare mai». Agli amici racconta riassunti inverosimili (quello di Mon oncle d' Amerique di Resnais è un capolavoro surreale) ma pian piano impara che quegli «ami incandescenti» lo aiutano a crescere, a conoscere il mondo che lo circonda, a esercitare la fantasia, a capire la storia e la politica. E si accorge che il cinema, oltre che divertirlo, lo aiuta a vivere. È quello che, in maniere più scanzonata, ci ricordano anche Emanuela Martini e gli amici con cui ha scritto Che cosa guardo stasera? (Il castoro, pp. 194, 15). Non è solo un divertente manuale di «cineterapia» per usare i film come consolazione serale in ogni tipo di occasione: è anche, a leggere le belle schede di accompagnamento, un modo per riannodare i legami tra cinema e realtà e scoprire dentro a film «ingessati» dall' accademia o dalla cinefilia quegli «ami incandescenti» di cui parla Guéraud.
Da La vita è bella anche se non hai la tv. Basta il cinema di Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 2011.
C'era una volta una storia
di Giovanna Zoboli e Camilla Engman, 2011
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C'era una volta una storia è una storia di storie. [...]. L'atto di leggere un libro a qualcuno, di raccontare una storia ad altri, sono eventi che portano C'era una volta una storia a contatto con la dimensione dell'infinito narrare. [...] Siamo nel cuore della letteratura, dei suoi meccanismi sottili e delle sue regole d'oro, quando siamo tra le pagine di C'era una volta una storia. Ciò tocca in pari misura il linguaggio verbale e quello visuale: «C'era una volta una storia. La storia abitava in un libro. Il libro era di un bambino. Ma il bambino non sapeva leggere. Però, guardava le figure». [...]
Al principio sono di scena tre soggetti: una storia, un libro e un bambino. In breve tempo, si affianca loro una famiglia numerosa di interpreti principali e secondari. Sono una valigia, un cane, una donna con in testa un uccello, un gatto che balla, la mamma di un bambino, delle figure, delle lettere alfabetiche, un pappagallo, un albero giapponese, due calzini di lana, un orso lettore, delle scimmie, il signore del piano di sotto, degli omini neri, un trenino, una casa fantasma, un uccello blu con la coda rossa, un principe con le zampe di velluto, un leone, una papera di gomma, l'uomo nero, un pesce, un vaso, un fiore, delle stelle, la luna, il sole... C'era una volta una storia appartiene alla collana Albi ed è il secondo albo, dopo Troppo tardi (2010), realizzato da Camilla Engman e Giovanna Zoboli. Si tratta, in entrambe le occasioni, di libri della buona notte, ispirati al momento in cui un bimbo, infilato il pigiama, si fa raccontare una storia per addormentarsi oppure la racconta a se stesso. [...] Il momento della buona notte è un rito da camera dei bambini, cui partecipano dapprima il protagonista e la mamma; in seguito, il protagonista e i suoi giocattoli. Aggettivi e verbi sono al servizio della trasmissione di bellezza. Figure, segni, colori, altrettanto. [...] C'era una volta una storia potrebbe essere la storia con cui un bambino e una mamma praticano per la prima volta la lettura e scoprono insieme il piacere di leggere.
Da Una storia, un libro, un bambino, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2013.
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C'era una volta una storia è una storia di storie. [...]. L'atto di leggere un libro a qualcuno, di raccontare una storia ad altri, sono eventi che portano C'era una volta una storia a contatto con la dimensione dell'infinito narrare. [...] Siamo nel cuore della letteratura, dei suoi meccanismi sottili e delle sue regole d'oro, quando siamo tra le pagine di C'era una volta una storia. Ciò tocca in pari misura il linguaggio verbale e quello visuale: «C'era una volta una storia. La storia abitava in un libro. Il libro era di un bambino. Ma il bambino non sapeva leggere. Però, guardava le figure». [...]
Al principio sono di scena tre soggetti: una storia, un libro e un bambino. In breve tempo, si affianca loro una famiglia numerosa di interpreti principali e secondari. Sono una valigia, un cane, una donna con in testa un uccello, un gatto che balla, la mamma di un bambino, delle figure, delle lettere alfabetiche, un pappagallo, un albero giapponese, due calzini di lana, un orso lettore, delle scimmie, il signore del piano di sotto, degli omini neri, un trenino, una casa fantasma, un uccello blu con la coda rossa, un principe con le zampe di velluto, un leone, una papera di gomma, l'uomo nero, un pesce, un vaso, un fiore, delle stelle, la luna, il sole... C'era una volta una storia appartiene alla collana Albi ed è il secondo albo, dopo Troppo tardi (2010), realizzato da Camilla Engman e Giovanna Zoboli. Si tratta, in entrambe le occasioni, di libri della buona notte, ispirati al momento in cui un bimbo, infilato il pigiama, si fa raccontare una storia per addormentarsi oppure la racconta a se stesso. [...] Il momento della buona notte è un rito da camera dei bambini, cui partecipano dapprima il protagonista e la mamma; in seguito, il protagonista e i suoi giocattoli. Aggettivi e verbi sono al servizio della trasmissione di bellezza. Figure, segni, colori, altrettanto. [...] C'era una volta una storia potrebbe essere la storia con cui un bambino e una mamma praticano per la prima volta la lettura e scoprono insieme il piacere di leggere.
Da Una storia, un libro, un bambino, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2013.
Giotto. Quaderno di disegno
di Marta Sironi e Chiara Carrer, 2014
14,00 | Acquistalo su Topishop
Giotto. Quaderno di disegno di Marta Sironi e Chiara Carrer è l'ultimo in ordine cronologico, l’unico monografico, che racconta l’identità artistica di Giotto, figura di passaggio tra l’arte del Medioevo e quella del Risorgimento. Nonostante le numerose commissioni a tema religioso, Giotto fu uno dei primi a rappresentare la realtà che lo circondava attraverso le architetture (anche di interni come le case) e i paesaggi. Fu inoltre abilissimo nel rappresentare la gestualità dei suoi soggetti, unico mezzo per raccontarne la storia e le relazioni.
Da PIPPO, la collana di Topipittori per insegnare l’arte ai bambini, in Libreriamo.
14,00 | Acquistalo su Topishop
Il
nome della collana è buffo, «PIPPO», ma ha un significato preciso:
queste cinque lettere stanno infatti per PIccola Pinacoteca POrtatile.
Si tratta di una piccola collezione di libri (quattro per il momento)
che ci guidano nel mondo dell'arte, del disegno, della pittura
offrendoci una miriade di spunti interessanti per capire, sperimentare,
giocare, imparare. Dopo averci parlato di animali, dame e cavalieri e
nature morte, il nuovo volume è un quaderno tutto dedicato a uno dei
massimi maestri della pittura, Giotto. I suoi affreschi più famosi sono
riprodotti dalla mano dell'illustratrice Chiara Carrer che ne segue le
linee principali e ne isola parti o dettagli. Attraverso le figure
sacre, i paesaggi e le architetture, guidati dal testo della storica
dell'arte Marta Sironi, curatrice dell'intera collana, entriamo nella
vita di un artista attivo tra Duecento e Trecento che prima di diventare
un pittore è stato un bambino che disegnava curioso il mondo intorno a
sé. - See more at:
http://www.corrieredisaluzzo.it/cgi-bin/archivio/news/Giotto--Quaderno-di-disegno.asp#sthash.mYVK7RVb.dpuf
PIPPO è la PIccola Pinacoteca POrtatile: un libro che può stare in biblioteca, ma è anche un insieme di pagine che si possono colorare, disegnare, ritagliare, incollare insieme, staccare e appendere al muro. PIPPO è nato grazie all’immaginazione di Guido Scarabottolo[...]. Attualmente PIPPO vive attraverso 4 volumi, curati da Marta Sironi con illustratori di volta in volta diversi. Marta scrive i testi, brevi didascalie di accompagnamento alle immagini e gli illustratori scelgono quale artista re-interpretare. Lo scopo della collana è giocare con l’arte, imparando a osservare quel che c’è nei quadri, per riflettere su come e perché i pittori immaginano, disegnano, rappresentano cose, persone, animali, città e paesaggi. PIPPO è un gioco interattivo, uno strumento per genitori e docenti per insegnare ai più piccoli la storia dell’arte attraverso i grandi capolavori del passato. E volendo, è un ottima guida d’accompagnamento nei musei.Giotto. Quaderno di disegno di Marta Sironi e Chiara Carrer è l'ultimo in ordine cronologico, l’unico monografico, che racconta l’identità artistica di Giotto, figura di passaggio tra l’arte del Medioevo e quella del Risorgimento. Nonostante le numerose commissioni a tema religioso, Giotto fu uno dei primi a rappresentare la realtà che lo circondava attraverso le architetture (anche di interni come le case) e i paesaggi. Fu inoltre abilissimo nel rappresentare la gestualità dei suoi soggetti, unico mezzo per raccontarne la storia e le relazioni.
Da PIPPO, la collana di Topipittori per insegnare l’arte ai bambini, in Libreriamo.
Il
nome della collana è buffo, «PIPPO», ma ha un significato preciso:
queste cinque lettere stanno infatti per PIccola Pinacoteca POrtatile.
Si tratta di una piccola collezione di libri (quattro per il momento)
che ci guidano nel mondo dell'arte, del disegno, della pittura
offrendoci una miriade di spunti interessanti per capire, sperimentare,
giocare, imparare. Dopo averci parlato di animali, dame e cavalieri e
nature morte, il nuovo volume è un quaderno tutto dedicato a uno dei
massimi maestri della pittura, Giotto. I suoi affreschi più famosi sono
riprodotti dalla mano dell'illustratrice Chiara Carrer che ne segue le
linee principali e ne isola parti o dettagli. Attraverso le figure
sacre, i paesaggi e le architetture, guidati dal testo della storica
dell'arte Marta Sironi, curatrice dell'intera collana, entriamo nella
vita di un artista attivo tra Duecento e Trecento che prima di diventare
un pittore è stato un bambino che disegnava curioso il mondo intorno a
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Il
nome della collana è buffo, «PIPPO», ma ha un significato preciso:
queste cinque lettere stanno infatti per PIccola Pinacoteca POrtatile.
Si tratta di una piccola collezione di libri (quattro per il momento)
che ci guidano nel mondo dell'arte, del disegno, della pittura
offrendoci una miriade di spunti interessanti per capire, sperimentare,
giocare, imparare. Dopo averci parlato di animali, dame e cavalieri e
nature morte, il nuovo volume è un quaderno tutto dedicato a uno dei
massimi maestri della pittura, Giotto. I suoi affreschi più famosi sono
riprodotti dalla mano dell'illustratrice Chiara Carrer che ne segue le
linee principali e ne isola parti o dettagli. Attraverso le figure
sacre, i paesaggi e le architetture, guidati dal testo della storica
dell'arte Marta Sironi, curatrice dell'intera collana, entriamo nella
vita di un artista attivo tra Duecento e Trecento che prima di diventare
un pittore è stato un bambino che disegnava curioso il mondo intorno a
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Il pifferaio magico di Hamelin
di Robert Browning,
illustrazioni di Antonella Toffolo,
traduzione di Umberto Fiori e Livia Brambilla, 2007.
13,00 | Acquistalo su Topishop
Non credo esistano fiabe più oscure per tema e tradizione de Il pifferaio magico di Hamelin. E non a caso, infatti, Antonella Toffolo, che ha illustrato la traduzione di Umberto Fiori e Livia Brambilla per l’edizione di Topipittori, ha scelto il nero. Il bianco e nero, dovrei dire più propriamente, anche se, di fatto, il bianco passa inosservato e si riduce agli occhi come un mezzo neutro per sottolineare la drammaticità del tratto di carbone.
Questa ballata di Robert Browning, poi resa in prosa dai fratelli Grimm, è una delle opere più celebri e amate della letteratura inglese per ragazzi. Inserirla nella collana delle “fiabe quasi classiche” è un’idea eccellente perché le illustrazioni così cariche di drammatica contemporaneità davvero sembrano danzare in pieno equilibrio con le parole antiche. Parole e immagini danzano con competenza di passo e al contempo come preda di una musica magica che le coinvolge e trascina. [...] È una fiaba che, come un velo nero, si stende implacabile sui vizi umani, e sul principe dei vizi: l’ingratitudine, e punisce senza pietà. Il pifferaio libera la città di Hamelin dai ratti, li strega con la sua musica magica e li induce a tuffarsi nel fiume e annegare. La città, libera dalla piaga si rivela ingrata e ingiusta, non tiene fede alla parola data e dimentica la situazione misera da cui il pifferaio l’ha liberata. Il pifferaio da parte sua è spietato, non perdona e punisce nella maniera più terribile possibile. Riducendoli a prede con il suo flauto magico, trascina nel ventre di una montagna tutti i bimbi di Hamelin, spegnendo con un unico soffio le speranze della cittadina.
Da Una fiaba dalla tradizione oscura che guarda al futuro con speranza, di Barbara Ferraro, AtlantideKids, 2011.
illustrazioni di Antonella Toffolo,
traduzione di Umberto Fiori e Livia Brambilla, 2007.
Non credo esistano fiabe più oscure per tema e tradizione de Il pifferaio magico di Hamelin. E non a caso, infatti, Antonella Toffolo, che ha illustrato la traduzione di Umberto Fiori e Livia Brambilla per l’edizione di Topipittori, ha scelto il nero. Il bianco e nero, dovrei dire più propriamente, anche se, di fatto, il bianco passa inosservato e si riduce agli occhi come un mezzo neutro per sottolineare la drammaticità del tratto di carbone.
Questa ballata di Robert Browning, poi resa in prosa dai fratelli Grimm, è una delle opere più celebri e amate della letteratura inglese per ragazzi. Inserirla nella collana delle “fiabe quasi classiche” è un’idea eccellente perché le illustrazioni così cariche di drammatica contemporaneità davvero sembrano danzare in pieno equilibrio con le parole antiche. Parole e immagini danzano con competenza di passo e al contempo come preda di una musica magica che le coinvolge e trascina. [...] È una fiaba che, come un velo nero, si stende implacabile sui vizi umani, e sul principe dei vizi: l’ingratitudine, e punisce senza pietà. Il pifferaio libera la città di Hamelin dai ratti, li strega con la sua musica magica e li induce a tuffarsi nel fiume e annegare. La città, libera dalla piaga si rivela ingrata e ingiusta, non tiene fede alla parola data e dimentica la situazione misera da cui il pifferaio l’ha liberata. Il pifferaio da parte sua è spietato, non perdona e punisce nella maniera più terribile possibile. Riducendoli a prede con il suo flauto magico, trascina nel ventre di una montagna tutti i bimbi di Hamelin, spegnendo con un unico soffio le speranze della cittadina.
Da Una fiaba dalla tradizione oscura che guarda al futuro con speranza, di Barbara Ferraro, AtlantideKids, 2011.
Sonno gigante sonno piccino
di Giusi Quarenghi e Giulia Sagramola, 2013
20,00 | Acquistalo su Topishop
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"Questa sera
sul cuscino
non trova sonno il mio bambino [...]
non trova sonno il mio bambino [...]
Forse gli balla
qualcosa in testa
forse ha voglia di fare festa
forse non so forse chissà...
piccolo sonno passa di qua."
Tra questi versi si scioglie la ninnananna di Giusi Quarenghi, in cerca del sonno di un bambino che questa sera non ha tanta voglia di dormire.
Un viaggio immaginato, creato dai tanti 'forse' che nel percorso segnano bivi di fantasia: forse è andato a fare un giro o forse ha incontrato un ghiro, forse nuota in mezzo al mare, forse vola su un cammello o galoppa su un uccello.
Forse.
In tutta questa incertezza, una sola cosa è certa, lui, il bambino, si sta divertendo un mondo. In quel mondo che è al di là della veglia.
Ma questo bambino non è l'unico a spassarsela. Con lui si devono essere molto divertite anche le autrici, Giusi Qarenghi e Giulia Sagramola, che hanno costruito un viaggio, giocando con il senso delle parole e con il senso delle immagini e con il senso del tempo che va.
Così come Giusi Quarenghi colora di nuovo senso le parole, per cui una stella si beve e una camomilla si guarda, un cammello decolla e un uccello galoppa (è normale non prendere sonno con questa confusione...), altrettanto fa Giulia Sagramola con le immagini.
Fotografie in bianco e nero dell'infanzia di nonni e genitori che, sapientemente ritoccate, prendono colore e si arricchiscono di particolari per assumere nuovi significati.
Da Forse... (il sonno visto da chi resta sveglio), su Lettura candita, di Carla Ghisalberti, 2013.
forse ha voglia di fare festa
forse non so forse chissà...
piccolo sonno passa di qua."
Tra questi versi si scioglie la ninnananna di Giusi Quarenghi, in cerca del sonno di un bambino che questa sera non ha tanta voglia di dormire.
Un viaggio immaginato, creato dai tanti 'forse' che nel percorso segnano bivi di fantasia: forse è andato a fare un giro o forse ha incontrato un ghiro, forse nuota in mezzo al mare, forse vola su un cammello o galoppa su un uccello.
Forse.
In tutta questa incertezza, una sola cosa è certa, lui, il bambino, si sta divertendo un mondo. In quel mondo che è al di là della veglia.
Ma questo bambino non è l'unico a spassarsela. Con lui si devono essere molto divertite anche le autrici, Giusi Qarenghi e Giulia Sagramola, che hanno costruito un viaggio, giocando con il senso delle parole e con il senso delle immagini e con il senso del tempo che va.
Così come Giusi Quarenghi colora di nuovo senso le parole, per cui una stella si beve e una camomilla si guarda, un cammello decolla e un uccello galoppa (è normale non prendere sonno con questa confusione...), altrettanto fa Giulia Sagramola con le immagini.
Fotografie in bianco e nero dell'infanzia di nonni e genitori che, sapientemente ritoccate, prendono colore e si arricchiscono di particolari per assumere nuovi significati.
Da Forse... (il sonno visto da chi resta sveglio), su Lettura candita, di Carla Ghisalberti, 2013.
Gli amici nascosti
di Cecilia Bartoli, 2014
10,00 | Acquistalo su Topishop
Nella mia esperienza i luoghi in cui ho sperimentato con più efficacia il gioco e la pratica dell'immedesimazione sono la lettura e il teatro.
Due anni fa, in terza, lessi il racconto di Robera, un ragazzo etiope sfuggito alla guerra, che con sua madre affronta un lungo viaggio nel deserto che lo porta dal Sudan alla Libia, e poi ad affrontare la terribile esperienza della traversata del mare fino alla Sicilia. Robera ha la stessa età dei bambini e ci mette anni prima di arrivare a Roma, dove Cecilia Bartoli, un'amica psicologa, ha raccolto le parole sue e di sua madre.
Questa testimonianza orale che io leggo loro prende così tanto le bambine e i bambini che decidiamo di metterla in scena per Natale, trasformando il suo breve racconto in una narrazione corale, accompagnata da semplici movimenti evocativi.
L'impatto che ebbe allora il confronto con quel racconto è rimasto nella mia mente con così tanta forza che, durante l'estate, pensando a un tema per il nostro ultimo spettacolo teatrale e a un libro che potrebbe accompagnarci per tutto l'anno in quinta elementare, progetto di leggere in classe Nel mare ci sono i coccodrilli. [...]
È più difficile dare corpo a un personaggio vero?
In terza elementare, quando mettemmo in scena la storia del ragazzo etiope fuggito dalla guerra del suo paese, ci fu un'appassionata discussione fra i bambini. Simone sosteneva che lo spettacolo doveva essere diverso, perché «Robera le ha affrontate davvero quelle cose.» E Matteo aggiungeva: «tu pensi che non è successa davvero questa cosa, perché tu non vuoi che succedono... invece è successa!»
In questa storia c'è un bambino che non è uguale a noi - sosteneva Valeria - cioè è uguale a noi, ma non ha vissuto come noi.» E Asia precisava: «Negli spettacoli che abbiamo fatto finora non c'era mai stata la realtà. Questo è stato il primo spettacolo che abbiamo fatto che è stato vero e tu ti immedesimavi più nella parte, perché capivi un po' come viveva, tutti i viaggi che ha fatto, le sensazioni, le emozioni tutte...»
All'affermazione di Asia, che sosteneva che era più facile immedesimarsi con Robera, dato che la storia era vera, rispose con decisione Marianna, sostenendo che «la vita di Robera è molto diversa dalla nostra vita. E quindi è più difficile rappresentarla per noi, che siamo molto più fortunati di lui». [...] Se tu dai voce alla storia di un altro e quell'altro ha realmente vissuto ciò che tu stai tentando di rappresentare, non hai il diritto di mentire, sostennero con forza Vlaeria e Greta. Da finzione, in cui giocare con gli eroi dei miti o con gli strampalati personaggi usciti dalla fantasia di Roal Dahl, il teatro era diventato per loro luogo di verità, momento e occasione per cercare di entrare in una storia che non era la loro.
da I bambini pensano grande. Cronaca di un'avventura pedagogica di Franco Lorenzoni.
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Nella mia esperienza i luoghi in cui ho sperimentato con più efficacia il gioco e la pratica dell'immedesimazione sono la lettura e il teatro.
Due anni fa, in terza, lessi il racconto di Robera, un ragazzo etiope sfuggito alla guerra, che con sua madre affronta un lungo viaggio nel deserto che lo porta dal Sudan alla Libia, e poi ad affrontare la terribile esperienza della traversata del mare fino alla Sicilia. Robera ha la stessa età dei bambini e ci mette anni prima di arrivare a Roma, dove Cecilia Bartoli, un'amica psicologa, ha raccolto le parole sue e di sua madre.
Questa testimonianza orale che io leggo loro prende così tanto le bambine e i bambini che decidiamo di metterla in scena per Natale, trasformando il suo breve racconto in una narrazione corale, accompagnata da semplici movimenti evocativi.
L'impatto che ebbe allora il confronto con quel racconto è rimasto nella mia mente con così tanta forza che, durante l'estate, pensando a un tema per il nostro ultimo spettacolo teatrale e a un libro che potrebbe accompagnarci per tutto l'anno in quinta elementare, progetto di leggere in classe Nel mare ci sono i coccodrilli. [...]
È più difficile dare corpo a un personaggio vero?
In terza elementare, quando mettemmo in scena la storia del ragazzo etiope fuggito dalla guerra del suo paese, ci fu un'appassionata discussione fra i bambini. Simone sosteneva che lo spettacolo doveva essere diverso, perché «Robera le ha affrontate davvero quelle cose.» E Matteo aggiungeva: «tu pensi che non è successa davvero questa cosa, perché tu non vuoi che succedono... invece è successa!»
In questa storia c'è un bambino che non è uguale a noi - sosteneva Valeria - cioè è uguale a noi, ma non ha vissuto come noi.» E Asia precisava: «Negli spettacoli che abbiamo fatto finora non c'era mai stata la realtà. Questo è stato il primo spettacolo che abbiamo fatto che è stato vero e tu ti immedesimavi più nella parte, perché capivi un po' come viveva, tutti i viaggi che ha fatto, le sensazioni, le emozioni tutte...»
All'affermazione di Asia, che sosteneva che era più facile immedesimarsi con Robera, dato che la storia era vera, rispose con decisione Marianna, sostenendo che «la vita di Robera è molto diversa dalla nostra vita. E quindi è più difficile rappresentarla per noi, che siamo molto più fortunati di lui». [...] Se tu dai voce alla storia di un altro e quell'altro ha realmente vissuto ciò che tu stai tentando di rappresentare, non hai il diritto di mentire, sostennero con forza Vlaeria e Greta. Da finzione, in cui giocare con gli eroi dei miti o con gli strampalati personaggi usciti dalla fantasia di Roal Dahl, il teatro era diventato per loro luogo di verità, momento e occasione per cercare di entrare in una storia che non era la loro.
da I bambini pensano grande. Cronaca di un'avventura pedagogica di Franco Lorenzoni.
N° 3. Che mistero nasconde il giardino dei vicini?
di Giulia Goy e Giulia Binfield, 2005
12,50 | Acquistalo su Topishop
«Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere. […] Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra: i rumori ne vengono attutiti, i movimenti diventano fantomatici e la strada stessa appare, attraverso il vetro trasparente, ma saldo e duro, come una entità separata, che pulsi in un “al di là”. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento, ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.». Sono parole di Vasilij Kandinskij, scritte nel 1926, per introdurre il saggio Punto, linea, superficie. Il pensiero del pittore russo aiuta a spiegare ai lettori di oggi il modo in cui è nato N° 3. Che mistero nasconde il giardino dei vicini?, cioè il testo di Giulia Goy e le immagini di Julia Binfiled: osservando “fenomeni” da una finestra (stando dietro e “aprendo la porta”), e lasciando traccia delle rispettive visioni dentro la scrittura e la pittura. Non per nulla, Kandinskij porta a esempio una situazione che il lettore ritrova all’inizio di questa storia e che è consueta per i personaggi che la abitano. All'inizio della storia, infatti, si legge: «Io e la mia famiglia abitiamo in città, in un appartamento, al terzo piano di un palazzo. Di fronte a noi, c’è una grande casa con il giardino: il n° 3. Il n° 3 è una casa strana, immobile e silenziosa. Con le mie sorelle, dalle finestre, la spiamo sempre.».
Il libro stesso, rispetto al lettore, è la proposta di un “al di là” che si accende e si spegne con l’inizio e la fine della lettura. In più, N° 3. Che mistero nasconde il giardino dei vicini?, fa parte della collana Grilli per la testa, creata – si legge in quarta di copertina – «per aprire finestre su significati nascosti, creare nessi imprevisti fra cose e persone, illuminare storie segrete, ma sotto i nostri occhi.».
Su queste basi, uno degli esiti della lettura di N° 3. Che mistero nasconde il giardino dei vicini?, potrebbe essere quello di dare concretezza all’esperienza vissuta come lettori, quando ci si apposta a quella particolare finestra che è ogni libro, e si legge, in immagini e/o parole, dentro e fuori di noi. N° 3, insomma, introduce ai misteri e ai piaceri della lettura e racconta cosa significhi “leggere”: che si tratti di un libro, di un paesaggio, di una situazione o di sé. [...] N° 3 . Che mistero nasconde il giardino dei vicini? è una conversazione a sette voci (sette capitoli, sette scene), che si ascolta su due binari paralleli: uno scritto, l’altro dipinto; uno fatto di segni (dipinto), l’altro, di interpretazioni (scritto); uno privo di persone (dipinto); l’altro affollato di persone (scritto); uno silenzioso (dipinto); l’altro “rumoroso” (scritto); uno aperto, fuori casa (dipinto); l’altro chiuso, dentro casa (scritto); ecc.
Vedere l’invisibile, a quest’indirizzo, è un’arte. Cifre e piante sono la chiave di voci misteriose che sotto i nostri occhi, compaiono e scompaiono di continuo.
Da Una finestra sul giardino, di Giulia Mirandola, Catalogone 2007.
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«Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere. […] Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra: i rumori ne vengono attutiti, i movimenti diventano fantomatici e la strada stessa appare, attraverso il vetro trasparente, ma saldo e duro, come una entità separata, che pulsi in un “al di là”. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento, ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.». Sono parole di Vasilij Kandinskij, scritte nel 1926, per introdurre il saggio Punto, linea, superficie. Il pensiero del pittore russo aiuta a spiegare ai lettori di oggi il modo in cui è nato N° 3. Che mistero nasconde il giardino dei vicini?, cioè il testo di Giulia Goy e le immagini di Julia Binfiled: osservando “fenomeni” da una finestra (stando dietro e “aprendo la porta”), e lasciando traccia delle rispettive visioni dentro la scrittura e la pittura. Non per nulla, Kandinskij porta a esempio una situazione che il lettore ritrova all’inizio di questa storia e che è consueta per i personaggi che la abitano. All'inizio della storia, infatti, si legge: «Io e la mia famiglia abitiamo in città, in un appartamento, al terzo piano di un palazzo. Di fronte a noi, c’è una grande casa con il giardino: il n° 3. Il n° 3 è una casa strana, immobile e silenziosa. Con le mie sorelle, dalle finestre, la spiamo sempre.».
Il libro stesso, rispetto al lettore, è la proposta di un “al di là” che si accende e si spegne con l’inizio e la fine della lettura. In più, N° 3. Che mistero nasconde il giardino dei vicini?, fa parte della collana Grilli per la testa, creata – si legge in quarta di copertina – «per aprire finestre su significati nascosti, creare nessi imprevisti fra cose e persone, illuminare storie segrete, ma sotto i nostri occhi.».
Su queste basi, uno degli esiti della lettura di N° 3. Che mistero nasconde il giardino dei vicini?, potrebbe essere quello di dare concretezza all’esperienza vissuta come lettori, quando ci si apposta a quella particolare finestra che è ogni libro, e si legge, in immagini e/o parole, dentro e fuori di noi. N° 3, insomma, introduce ai misteri e ai piaceri della lettura e racconta cosa significhi “leggere”: che si tratti di un libro, di un paesaggio, di una situazione o di sé. [...] N° 3 . Che mistero nasconde il giardino dei vicini? è una conversazione a sette voci (sette capitoli, sette scene), che si ascolta su due binari paralleli: uno scritto, l’altro dipinto; uno fatto di segni (dipinto), l’altro, di interpretazioni (scritto); uno privo di persone (dipinto); l’altro affollato di persone (scritto); uno silenzioso (dipinto); l’altro “rumoroso” (scritto); uno aperto, fuori casa (dipinto); l’altro chiuso, dentro casa (scritto); ecc.
Vedere l’invisibile, a quest’indirizzo, è un’arte. Cifre e piante sono la chiave di voci misteriose che sotto i nostri occhi, compaiono e scompaiono di continuo.
Da Una finestra sul giardino, di Giulia Mirandola, Catalogone 2007.
Scompiripiglio!
di Studio Euphrates, 2013
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Scompiripiglio! è una raccolta di tre storie: Talfino e Polnacchia; Talfino e la scompiripappa; Talfino, che pasticcio!. Gli Scompiripigli sono numerosi. Si chiamano Talfino, Polnacchia, Scoiattosauro, Corniglio, Formiguro, Talipo eccetera. Essi «sono animali nati da strani scompigli.» Talfino, per esempio, è «lo scompiripiglio di una talpa e di un delfino.» Polnacchia, quello di un polipo e di una cornacchia. I bambini conoscono questo genere di giochi, li praticano non appena acquisita una certa padronanza della lingua parlata e scritta. La scoperta di questi nuovi amici immaginari, potrebbe dare luogo a un gioco basato sulle parole composte e dedicato all'invenzione di nuovi Scompiripigli concepiti dall'unione di due specie. [...] Scompiripiglio! si basa su storie di lunghezza regolare, costruite secondo il medesimo metodo compositivo: tra un punto di partenza e un punto di arrivo, c'è un rettilineo da percorrere, interrotto a un certo punto da una biforcazione o da curve. [...] Cartelli e frecce, indicano ai lettori di scegliere una pista e di proseguirla anche nel passaggio da una pagina a quella successiva, oppure precedente, come accade in Talfino, che pasticcio! dove il protagonista è immerso in un groviglio di vie, binari, scale, tunnel da superare. Seguire Talfino, significa non perdersi nei ripetuti cambi di pagina, non solo di direzione. Talfino, infatti, avanza se i lettori non ne perdono le tracce e ne assecondano, coerentemente, i cambi di rotta. D'altra parte, il lettore ha ampio margine di azione, perché è lui stesso a decidere dove accompagnare Talfino e a quale velocità di andatura. Il rispecchiamento tra trama e grado di attività dei lettori, è una qualità specifica del libro di Studio Euphrates, studiato secondo la tipologia del libro-game: a una strada diversa equivale una storia diversa; a un lettore diverso, equivalgono strade diverse; a lettori diversi, equivalgono storie diverse.
La difficoltà di prendere decisioni, in Scompiripiglio!, è proporzionata alla disponibilità ad assumersi la responsabilità delle proprie iniziative ed è tenuta in considerazione, anche quando si tratta di decidere tra un piatto di wurstel, formaggio fuso, hamburger e riso e uno di fagiolini, uova, cotoletta e riso. In linea generale, decidere che fare, per Talfino non è semplice. A tale scopo, la posizione delle storie è stata accordata a diversi livelli di capacità. La prima storia, di livello semplice. La seconda, di livello intermedio. La terza, di livello difficile. Questa impostazione graduale non è priva di logica. Essa dovrebbe preparare una persona ad affrontare gli ostacoli, da quelli minori a quelli maggiori, sapendo che da ogni inciampo possiamo riprenderci gradualmente, in numerosi modi. Esperti non nasciamo, è il messaggio di Scompiripiglio!. L'esposizione progressiva di problemi, educa alla risoluzione progressiva degli stessi. Il piacere di misurarsi con prove sempre più complesse esiste nei bambini e nelle persone adulte se nel corso delle rispettive esistenze si presentano occasioni per sviluppare questo atteggiamento.
Da Scompigli e algoritmi dal Giappone, di Giulia Mirandola, Catalogone 2014.
Scompiripiglio! è una raccolta di tre storie: Talfino e Polnacchia; Talfino e la scompiripappa; Talfino, che pasticcio!. Gli Scompiripigli sono numerosi. Si chiamano Talfino, Polnacchia, Scoiattosauro, Corniglio, Formiguro, Talipo eccetera. Essi «sono animali nati da strani scompigli.» Talfino, per esempio, è «lo scompiripiglio di una talpa e di un delfino.» Polnacchia, quello di un polipo e di una cornacchia. I bambini conoscono questo genere di giochi, li praticano non appena acquisita una certa padronanza della lingua parlata e scritta. La scoperta di questi nuovi amici immaginari, potrebbe dare luogo a un gioco basato sulle parole composte e dedicato all'invenzione di nuovi Scompiripigli concepiti dall'unione di due specie. [...] Scompiripiglio! si basa su storie di lunghezza regolare, costruite secondo il medesimo metodo compositivo: tra un punto di partenza e un punto di arrivo, c'è un rettilineo da percorrere, interrotto a un certo punto da una biforcazione o da curve. [...] Cartelli e frecce, indicano ai lettori di scegliere una pista e di proseguirla anche nel passaggio da una pagina a quella successiva, oppure precedente, come accade in Talfino, che pasticcio! dove il protagonista è immerso in un groviglio di vie, binari, scale, tunnel da superare. Seguire Talfino, significa non perdersi nei ripetuti cambi di pagina, non solo di direzione. Talfino, infatti, avanza se i lettori non ne perdono le tracce e ne assecondano, coerentemente, i cambi di rotta. D'altra parte, il lettore ha ampio margine di azione, perché è lui stesso a decidere dove accompagnare Talfino e a quale velocità di andatura. Il rispecchiamento tra trama e grado di attività dei lettori, è una qualità specifica del libro di Studio Euphrates, studiato secondo la tipologia del libro-game: a una strada diversa equivale una storia diversa; a un lettore diverso, equivalgono strade diverse; a lettori diversi, equivalgono storie diverse.
La difficoltà di prendere decisioni, in Scompiripiglio!, è proporzionata alla disponibilità ad assumersi la responsabilità delle proprie iniziative ed è tenuta in considerazione, anche quando si tratta di decidere tra un piatto di wurstel, formaggio fuso, hamburger e riso e uno di fagiolini, uova, cotoletta e riso. In linea generale, decidere che fare, per Talfino non è semplice. A tale scopo, la posizione delle storie è stata accordata a diversi livelli di capacità. La prima storia, di livello semplice. La seconda, di livello intermedio. La terza, di livello difficile. Questa impostazione graduale non è priva di logica. Essa dovrebbe preparare una persona ad affrontare gli ostacoli, da quelli minori a quelli maggiori, sapendo che da ogni inciampo possiamo riprenderci gradualmente, in numerosi modi. Esperti non nasciamo, è il messaggio di Scompiripiglio!. L'esposizione progressiva di problemi, educa alla risoluzione progressiva degli stessi. Il piacere di misurarsi con prove sempre più complesse esiste nei bambini e nelle persone adulte se nel corso delle rispettive esistenze si presentano occasioni per sviluppare questo atteggiamento.
Da Scompigli e algoritmi dal Giappone, di Giulia Mirandola, Catalogone 2014.
Di notte sulla strada di casa
12,50 | Acquistalo su Topishop
Sedici tavole e sedici domande, per abitare la notte in modo sicuro, cercando storie nelle luci di una città insonne, che dal finestrino dell’auto sembra sognare se stessa.
Di notte sulla strada di casa accade se in vettura un bambino, sdraiato o sul fianco, seduto o accucciato, si affaccia sul mondo che gira e gli chiede perché?
Il libro scorre per tutta la sua durata su un doppio livello espressivo: uno interno e interiore; uno esterno ed esteriore. Lo evidenziano costantemente messe in primo piano, le sagome del cruscotto, dei sedili, dei finestrini: questo è l’interno. Si è dentro dal primo momento, quando, aprendo il libro, dalla copertina (dove l’auto coi suoi fari illumina il lettore) si accede all’interno della vettura senza sbattere portiere. Dentro, c’è un ambiente a noi noto: aria tiepida che fa stare senza cappotto; rumori attutiti; adulti taciturni che per la stanchezza hanno smesso di discutere, guidano, digeriscono, sonnecchiano; radio spenta perché il notiziario è già stato trasmesso; finestrini su tutti i lati. Lì dentro, sul vetro di questi schermi occasionali e perfetti, un bambino fissa ritratti di città, quadri di sole domande.
Il pensiero è protagonista. È lui che gira Di notte sulla strada di casa: come un regista, come un film. Si manifesta in forma interrogativa per sedici volte, scandendo il testo breve in altrettante domande. [...] Di notte sulla strada di casa è impossibile perdersi. Fari e insegne orientano. Non è dritta la via del ritorno e, se la segnaletica non mente, il rettilineo porta chissà dove. Dunque, si svolta. Chissà dove è una freccia in avanti, località futura e desiderabile poiché sconosciuta. L’ignoto non si teme. Per un bambino esploratore, alto quanto lo schienale di un sedile imbottito, anche la strada di casa, in fondo, è “chissà dove”, se essa dimostra di aver azzerato le consuetudini diurne e di essere oltre l’ordinario. Infinitamente piccolo e immensamente grande, si guardano e si parlano. Il cielo tocca la strada, la strada tocca il cielo. Per ciascuna domanda una stazione di conoscenza, un progetto di soluzione che si prospetta in divenire. Di notte sulla strada di casa si muove nel buio, facendo luce. [...] Sull’ultima tavola, lettore e protagonista si identificano: hanno in mano lo stesso libro – Di notte sulla strada di casa – e chiedono che qualcuno glielo legga: «Quando arriviamo mi leggi una storia?».
Da La traiettoria del pipistrello, di Giulia Mirandola, Catalogone 2007.
Lison ha paura
di Perrine Ledan e Lotte Braüning, 2012
14,00 | Acquistalo su Topishop
La piccola Lison ha paura di tutto: del lupo, delle streghe, dei fantasmi, della morte, dei ragni e dei pipistrelli, del buio, dei mostri… Sono così tante le sue paure che non riesce nemmeno ad identificarle. Forse però, a pensarci bene, del lupo non ha paura (è un animale tanto bellino); né delle streghe, che sono soltanto vecchiette infelici e sole, né dei fantasmi, che vivono in grandi castelli lontano da casa sua, né del buio perché è bello. Forse Lison non sa di cosa ha paura perché niente le fa paura; nemmeno la morte, perché morire è come andare in aereo e guardare ogni cosa dall’alto. Allora, forse, Lison non ricorda più di cosa ha paura…
Lison ha paura è una fiaba con finale a sorpresa scritta da Perrine Ledan, autrice bretone scoperta da Topipittori, con un passato da reporter e produttrice cinematografica. Attraverso piccoli dialoghi con i familiari che interpella a turno, la bambina protagonista – col suo buffo costume peloso che cita Max di Nel paese dei mostri selvaggi – si interroga su cosa le faccia davvero paura (si alternano al suo “microfono” la mamma, il papà, i nonni, lo zio, il fratello più grande e anche con quello ancora poppante), Lison affronta le paure più comuni tra i bambini, quella per gli animali notturni o per il lupo cattivo, quella per il buio, quella per le streghe, e, mentre ne parla, riesce da sola a rassicurarsi. Usa lo stesso sistema “psicoterapeutico” anche per le paure più profonde, dalla “morte” e alla “prigione”, fino a giungere alla conclusione che la paura più grande che ci assale è forse quella di avere paura: una paura strana, però, che se ne va proprio come è venuta. E mentre supera tutte le sue paure, la piccola Lison si spazientisce e si stufa, perché non vuole essere “una pulcina” per la mamma, “una capretta” per il papà, “una gattina” per la nonna, “un’ochetta” per il nonno, ma soltanto una bambina. Tratti leggeri e delicati per le illustrazioni della tedesca Lotte Braüning, con colori pastello, pacati e sobri, che ritraggono le varie paure senza mai “esagerarle”. Da Topipittori l’ennesimo bell’albo, che coniuga con precisione ed eleganza immagini e parole, dedicato ai bambini più piccoli che sanno (e dicono) di avere paura, ma anche a quelli più grandicelli che ormai non vogliono più ammetterlo.
Lison ha paura, di Barbara Balduzzi, su Mangialibri, 2012.
La piccola Lison ha paura di tutto: del lupo, delle streghe, dei fantasmi, della morte, dei ragni e dei pipistrelli, del buio, dei mostri… Sono così tante le sue paure che non riesce nemmeno ad identificarle. Forse però, a pensarci bene, del lupo non ha paura (è un animale tanto bellino); né delle streghe, che sono soltanto vecchiette infelici e sole, né dei fantasmi, che vivono in grandi castelli lontano da casa sua, né del buio perché è bello. Forse Lison non sa di cosa ha paura perché niente le fa paura; nemmeno la morte, perché morire è come andare in aereo e guardare ogni cosa dall’alto. Allora, forse, Lison non ricorda più di cosa ha paura…
Lison ha paura è una fiaba con finale a sorpresa scritta da Perrine Ledan, autrice bretone scoperta da Topipittori, con un passato da reporter e produttrice cinematografica. Attraverso piccoli dialoghi con i familiari che interpella a turno, la bambina protagonista – col suo buffo costume peloso che cita Max di Nel paese dei mostri selvaggi – si interroga su cosa le faccia davvero paura (si alternano al suo “microfono” la mamma, il papà, i nonni, lo zio, il fratello più grande e anche con quello ancora poppante), Lison affronta le paure più comuni tra i bambini, quella per gli animali notturni o per il lupo cattivo, quella per il buio, quella per le streghe, e, mentre ne parla, riesce da sola a rassicurarsi. Usa lo stesso sistema “psicoterapeutico” anche per le paure più profonde, dalla “morte” e alla “prigione”, fino a giungere alla conclusione che la paura più grande che ci assale è forse quella di avere paura: una paura strana, però, che se ne va proprio come è venuta. E mentre supera tutte le sue paure, la piccola Lison si spazientisce e si stufa, perché non vuole essere “una pulcina” per la mamma, “una capretta” per il papà, “una gattina” per la nonna, “un’ochetta” per il nonno, ma soltanto una bambina. Tratti leggeri e delicati per le illustrazioni della tedesca Lotte Braüning, con colori pastello, pacati e sobri, che ritraggono le varie paure senza mai “esagerarle”. Da Topipittori l’ennesimo bell’albo, che coniuga con precisione ed eleganza immagini e parole, dedicato ai bambini più piccoli che sanno (e dicono) di avere paura, ma anche a quelli più grandicelli che ormai non vogliono più ammetterlo.
Lison ha paura, di Barbara Balduzzi, su Mangialibri, 2012.
La
piccola Lison ha paura di tutto: del lupo, delle streghe, dei fantasmi,
della morte, dei ragni e dei pipistrelli, del buio, dei mostri… Sono
così tante le sue paure che non riesce nemmeno ad identificarle. Forse
però, a pensarci bene, del lupo non ha paura (è un animale tanto
bellino); né delle streghe, che sono soltanto vecchiette infelici e sol -
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http://www.mangialibri.com/bambini-ragazzi/lison-ha-paura#sthash.aMmfChfi.dpuf
La
piccola Lison ha paura di tutto: del lupo, delle streghe, dei fantasmi,
della morte, dei ragni e dei pipistrelli, del buio, dei mostri… Sono
così tante le sue paure che non riesce nemmeno ad identificarle. Forse
però, a pensarci bene, del lupo non ha paura (è un animale tanto
bellino); né delle streghe, che sono soltanto vecchiette infelici e sol -
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A scuola principessa
di Giovanna Zoboli e Gabriella Giandelli, 2006
13,00 | Acquistalo su Topishop
A scuola, Principessa! si muove in ambienti di metropolitani. [...] Leggendo, il lettore attraversa giardinetti, semplici cucine, rampe di scale, pianerottoli, camere da letto. Ci sono pezzi di strade asfaltate, motori in corsa, cemento. Con ogni probabilità, la scuola è pubblica. [...] La vita di periferia, qui, non è grigia, umiliante o pericolosa; piuttosto, è carica di mistero, di curiosità, di voglia di confrontarsi con gli altri. I personaggi che si incontrano possono fregiarsi di titoli nobiliari e nomi altisonanti: principessa Drusilla, conte delle Sette Oche, duca di Brocca Maliarda, marchesa di Malga Ribalda, re di Gatta Randagia, regina di Tazza Dipinta, marchese di Stazza Massiccia, baronessa del Dente Spezzato. Giovanna Zoboli descrive così, la famiglia di Drusilla: «[…] era una famiglia di re molto moderni, che vivevano in città, in uno speciale palazzo con tanti appartamenti, tutti per principi, conti, principesse, re e regine, così stavano fra loro e potevano fare discorsi adatti a gente altolocata.».
La scelta di affidare questa storia a Gabriella Giandelli, finissima fumettista, impareggiabile narratrice di atmosfere, storie e tipi metropolitani, si rivela cruciale nell’interpretazione del testo. L’alluvione di principesse che sommerge il mercato editoriale rivolto a bambine e ragazze fa affidamento su un iconografia fra le più abusate e leziose che declassa le impavide principesse delle fiabe a smorfiosissime reginette di bellezza. Qui i cliché si capovolgono: Giandelli fa un ritratto accurato di bambine vere che vivono in condomini, vestono con abiti di grandi magazzini, prendono l’autobus. Bambine vere che, in effetti, sono davvero principesse, ma non perché belle: perché curiose, riflessive, coraggiose, proprio come da sempre ci vengono descritti i più bei personaggi femminili delle fiabe. C’è ironia nelle tavole della Giandelli, ma soprattutto un saldo amore della verità: la capacità di tradurre un archetipo in un linguaggio contemporaneo.
Andare a scuola è un’imposizione cui Drusilla reagisce, prima in modo impulsivo, poi in modo riflessivo. All’inizio prova rabbia; quindi, dopo un lungo meditare, confrontarsi, cercare soluzioni, il suo atteggiamento subisce una svolta, in positivo. Fino a questo momento, la scuola è rimasta un luogo su cui si fantastica. Tutti parlano per “sentito dire”, finché il lettore si imbatte in un’affermazione sulla scuola il cui carattere esplosivo è direttamente proporzionale alla modestia con cui viene pronunciata: «A me hanno detto che la scuola è dove i bambini diventano grandi.»
A parlare è una principessa «molto timida che parlava sempre per ultima»: la principessa del Passero. È l’unica voce veritiera sull’argomento e Drusilla lo capisce immediatamente. [...] Di sera, adagiata in una coltre di stelle artificiali, Drusilla si interroga sulla spinosa questione e scopre di avere una risposta riflettendo sulla propria natura nobiliare: «Sono o non sono una principessa? E le principesse non sono nate per l’avventura? »
L’indomani insieme alla principessa del Passero, sua prima ed eletta amica, affronterà l’inizio della tanto temuta scuola.
Da In una gornata di sole, di Giulia Mirandola, Catalogone 2007.
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A scuola, Principessa! si muove in ambienti di metropolitani. [...] Leggendo, il lettore attraversa giardinetti, semplici cucine, rampe di scale, pianerottoli, camere da letto. Ci sono pezzi di strade asfaltate, motori in corsa, cemento. Con ogni probabilità, la scuola è pubblica. [...] La vita di periferia, qui, non è grigia, umiliante o pericolosa; piuttosto, è carica di mistero, di curiosità, di voglia di confrontarsi con gli altri. I personaggi che si incontrano possono fregiarsi di titoli nobiliari e nomi altisonanti: principessa Drusilla, conte delle Sette Oche, duca di Brocca Maliarda, marchesa di Malga Ribalda, re di Gatta Randagia, regina di Tazza Dipinta, marchese di Stazza Massiccia, baronessa del Dente Spezzato. Giovanna Zoboli descrive così, la famiglia di Drusilla: «[…] era una famiglia di re molto moderni, che vivevano in città, in uno speciale palazzo con tanti appartamenti, tutti per principi, conti, principesse, re e regine, così stavano fra loro e potevano fare discorsi adatti a gente altolocata.».
La scelta di affidare questa storia a Gabriella Giandelli, finissima fumettista, impareggiabile narratrice di atmosfere, storie e tipi metropolitani, si rivela cruciale nell’interpretazione del testo. L’alluvione di principesse che sommerge il mercato editoriale rivolto a bambine e ragazze fa affidamento su un iconografia fra le più abusate e leziose che declassa le impavide principesse delle fiabe a smorfiosissime reginette di bellezza. Qui i cliché si capovolgono: Giandelli fa un ritratto accurato di bambine vere che vivono in condomini, vestono con abiti di grandi magazzini, prendono l’autobus. Bambine vere che, in effetti, sono davvero principesse, ma non perché belle: perché curiose, riflessive, coraggiose, proprio come da sempre ci vengono descritti i più bei personaggi femminili delle fiabe. C’è ironia nelle tavole della Giandelli, ma soprattutto un saldo amore della verità: la capacità di tradurre un archetipo in un linguaggio contemporaneo.
Andare a scuola è un’imposizione cui Drusilla reagisce, prima in modo impulsivo, poi in modo riflessivo. All’inizio prova rabbia; quindi, dopo un lungo meditare, confrontarsi, cercare soluzioni, il suo atteggiamento subisce una svolta, in positivo. Fino a questo momento, la scuola è rimasta un luogo su cui si fantastica. Tutti parlano per “sentito dire”, finché il lettore si imbatte in un’affermazione sulla scuola il cui carattere esplosivo è direttamente proporzionale alla modestia con cui viene pronunciata: «A me hanno detto che la scuola è dove i bambini diventano grandi.»
A parlare è una principessa «molto timida che parlava sempre per ultima»: la principessa del Passero. È l’unica voce veritiera sull’argomento e Drusilla lo capisce immediatamente. [...] Di sera, adagiata in una coltre di stelle artificiali, Drusilla si interroga sulla spinosa questione e scopre di avere una risposta riflettendo sulla propria natura nobiliare: «Sono o non sono una principessa? E le principesse non sono nate per l’avventura? »
L’indomani insieme alla principessa del Passero, sua prima ed eletta amica, affronterà l’inizio della tanto temuta scuola.
Da In una gornata di sole, di Giulia Mirandola, Catalogone 2007.
Miralat
di Diego Malaspina, 2009
10,00 | Acquistalo su Topishop
Sia detto subito, il titolo del commento, La principessa col pisello, non è farina del mio sacco: viene da un albo illustrato intitolato Nei panni di Zaf, dove, come qui, c'è un bimbo a cui piace travestirsi da principessa.
Questa di Diego Malaspina è un'autobiografia, realizzata per questa nuova collana, Gli anni in tasca, appunto dedicata a racconti biografici di infanzie e adolescenze.
Miralat è un racconto gustosissimo, saporito, che ritrae, con tinte vivaci e sapiente scrittura, gli anni della prima infanzia di un bimbo che pare un marziano, non mangia, sogna vestiti da fatina e la cui personale trinità è rappresentata da Cenerentola, Biancaneve e la Bella Addormentata.
Un affresco dell'Italia degli anni Sessanta, una galleria di personaggi di familiari e conoscenti riuscita, credibilissima e divertente.
Un racconto sulla diversità privo di qualsiasi retorica e morale posticcia, una storia sul presunto concetto di "nomalità" scanzonata e sorridente.
Una libro che ci sarebbe bisogno di far leggere (e far capire!), che rivela un talento narrativo nuovo; una delizia, una caramella succosa dall'inizio alla fine. Uno dei migliori romanzi per ragazzi dell'anno.
da La principessa col pisello di La prosivendola su Anobii.
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Sia detto subito, il titolo del commento, La principessa col pisello, non è farina del mio sacco: viene da un albo illustrato intitolato Nei panni di Zaf, dove, come qui, c'è un bimbo a cui piace travestirsi da principessa.
Questa di Diego Malaspina è un'autobiografia, realizzata per questa nuova collana, Gli anni in tasca, appunto dedicata a racconti biografici di infanzie e adolescenze.
Miralat è un racconto gustosissimo, saporito, che ritrae, con tinte vivaci e sapiente scrittura, gli anni della prima infanzia di un bimbo che pare un marziano, non mangia, sogna vestiti da fatina e la cui personale trinità è rappresentata da Cenerentola, Biancaneve e la Bella Addormentata.
Un affresco dell'Italia degli anni Sessanta, una galleria di personaggi di familiari e conoscenti riuscita, credibilissima e divertente.
Un racconto sulla diversità privo di qualsiasi retorica e morale posticcia, una storia sul presunto concetto di "nomalità" scanzonata e sorridente.
Una libro che ci sarebbe bisogno di far leggere (e far capire!), che rivela un talento narrativo nuovo; una delizia, una caramella succosa dall'inizio alla fine. Uno dei migliori romanzi per ragazzi dell'anno.
da La principessa col pisello di La prosivendola su Anobii.
La casa di Topo Pitù
di Roberto Piumini e Carll Cneut, 2013
22,00 | Acquistalo su Topishop
Piumini è uno dei maggiori scrittori contemporanei per l'infanzia. Cneut, uno dei più sofisticati illustratori del nostro tempo. Per centoventi pagine La casa di Topo Pitù è il regno della poesia e dell'allegrezza, che parla all'umanità dell'umanità, attraverso gli animali. Sono suricati, oche, pappagalli, pesci, topi, storni, passeri, canarini, pinguini, cani, piccioni, elefanti, volpi, orsi, formiche, cavalli, grilli, libellule, meduse, lupi, rinoceronti, trichechi, ippopotami, conigli, gatti, lombrichi, fenicotteri, galli, scimmie, pipistrelli, farfalle, zebre, pecore, cervi, ragni, maiali, cicogne, coccinelle, capodogli, lumache, asini, balene. Infine proprio loro: i bambini, le bambine. ”Seienni e “piccini” precisa il testo in alcuni momenti. Anche più piccoli o più grandi, aggiungerebbero certi lettori, che adottano La casa di Topo Pitù tra persone neonate e nonni di una certa età.
La casa di Topo Pitù è un luogo della lettura, dell'ascolto, della visione, dell'oralità; è un tempo per giocare, guardare le figure, muovere pensieri e passi del corpo. [...] Per trovare, prima di oggi, un esempio analogo a questo albo, ci saremmo dovuti riferire alla letteratura di altri paesi europei, dove il linguaggio della poesia è esplorato con più disinvoltura e maggiore continuità da parte di chi opera nell'ambito dell'editoria per l'infanzia.
Un oggetto così voluminoso e rappresentativo è, dunque, benvenuto. Esso potrà fungere da amplificatore degli scopi dichiarati dall'editore relativamente alla collana Parola magica, cui appartiene La casa di Topo Pitù, giunta con questa pubblicazione al suo quindicesimo titolo. È consuetudine per i lettori ritrovare qui «Poesie da recitare insieme ai bambini come formule magiche per superare gli ostacoli lungo il cammino delle giornate». Dal primo giorno della sua esistenza, la casa editrice Topipittori, tramite questa collana, ha scelto di promuovere la poesia; l'uso e la trasmissione di una lingua bella da scrivere e parlare da bambini e adulti, fra bambini e con i bambini; la ricerca di autori sconosciuti ai più e molto giovani, accanto a poeti affermati. La casa di Topo Pitù è un invito a conoscere meglio la collana di cui fa parte e a leggere tutti i libri di cui è madre.
Da 120 volte poesia, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2013.
22,00 | Acquistalo su Topishop
Piumini è uno dei maggiori scrittori contemporanei per l'infanzia. Cneut, uno dei più sofisticati illustratori del nostro tempo. Per centoventi pagine La casa di Topo Pitù è il regno della poesia e dell'allegrezza, che parla all'umanità dell'umanità, attraverso gli animali. Sono suricati, oche, pappagalli, pesci, topi, storni, passeri, canarini, pinguini, cani, piccioni, elefanti, volpi, orsi, formiche, cavalli, grilli, libellule, meduse, lupi, rinoceronti, trichechi, ippopotami, conigli, gatti, lombrichi, fenicotteri, galli, scimmie, pipistrelli, farfalle, zebre, pecore, cervi, ragni, maiali, cicogne, coccinelle, capodogli, lumache, asini, balene. Infine proprio loro: i bambini, le bambine. ”Seienni e “piccini” precisa il testo in alcuni momenti. Anche più piccoli o più grandi, aggiungerebbero certi lettori, che adottano La casa di Topo Pitù tra persone neonate e nonni di una certa età.
La casa di Topo Pitù è un luogo della lettura, dell'ascolto, della visione, dell'oralità; è un tempo per giocare, guardare le figure, muovere pensieri e passi del corpo. [...] Per trovare, prima di oggi, un esempio analogo a questo albo, ci saremmo dovuti riferire alla letteratura di altri paesi europei, dove il linguaggio della poesia è esplorato con più disinvoltura e maggiore continuità da parte di chi opera nell'ambito dell'editoria per l'infanzia.
Un oggetto così voluminoso e rappresentativo è, dunque, benvenuto. Esso potrà fungere da amplificatore degli scopi dichiarati dall'editore relativamente alla collana Parola magica, cui appartiene La casa di Topo Pitù, giunta con questa pubblicazione al suo quindicesimo titolo. È consuetudine per i lettori ritrovare qui «Poesie da recitare insieme ai bambini come formule magiche per superare gli ostacoli lungo il cammino delle giornate». Dal primo giorno della sua esistenza, la casa editrice Topipittori, tramite questa collana, ha scelto di promuovere la poesia; l'uso e la trasmissione di una lingua bella da scrivere e parlare da bambini e adulti, fra bambini e con i bambini; la ricerca di autori sconosciuti ai più e molto giovani, accanto a poeti affermati. La casa di Topo Pitù è un invito a conoscere meglio la collana di cui fa parte e a leggere tutti i libri di cui è madre.
Da 120 volte poesia, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2013.
C'è posto per tutti
di Massimo Caccia, 2011
16,00 | Acquistalo su Topishop
Animali: sono loro i protagonisti di C'è posto per tutti. Si sono lasciati alle spalle chissà quanti chilometri e giorni, regioni polari, savane, foreste temperate e tropicali, ghiacciai, montagne innevate, deserti, albe, crepuscoli, nottate, per arrivare fin qui, alla bocca dell'arca, per tentare adesso di salvarsi. Vanno verso la catastrofe annunciata, cioè il diluvio universale, in processione laica, non a coppie, come vorrebbe la tradizione, ma a singoli. Hanno l'aria che hanno: un po' preoccupata, un po' assonnata, molto concentrata, di nessuno si può dire che sia rassegnato all'apocalisse. La sventura che incombe sui loro passi – se fossero umani del 2012, verrebbe da immaginarli trafelati, suscettibili di smorfie deformanti e imprecazioni disarticolate al minimo alito di vento – è dissimulata con un grado di discrezione e self control a cui tutti dovremmo imparare a ispirarci nei momenti di disperazione.
Tanta è la comprensione per la precarietà del loro stato, quanta è la stupefazione e la tenerezza di fronte all'eleganza e alla compostezza con cui ciascun animale contrasta l'angoscia e attende il proprio turno. Ciascuno è fermo e al tempo stesso in moto perpetuo. Prevale un certo senso pratico sulla fretta di prendere posto come capita (perfino dentro l'arca regna un caos ordinato). [...]
C'è posto per tutti è un esempio antiretorico di convivenza riuscita. Quando stare uniti è un vero rompicapo, soggetti tra loro molto diversi, come qui, trovano nel tangram la perfetta soluzione. La geometria diventa il linguaggio per parlare la babele delle lingue e stringere incastri magici. Grazie all'intelligenza delle forme, i piccoli e i grandi, i morbidi e i duri, i molli e i rigidi, i grossi e i sottili, gli aperti e i chiusi, gli storti e i dritti, i leggeri e i pesanti, i caldi e i freddi eccetera, si fanno compagnia e socializzano. Anche perché il viaggio che si profila, dopo l'ultima pagina potrebbe essere infinito: perciò, meglio portarsi rispetto e volersi un po' bene.
Da Incastri magici, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2012.
16,00 | Acquistalo su Topishop
Animali: sono loro i protagonisti di C'è posto per tutti. Si sono lasciati alle spalle chissà quanti chilometri e giorni, regioni polari, savane, foreste temperate e tropicali, ghiacciai, montagne innevate, deserti, albe, crepuscoli, nottate, per arrivare fin qui, alla bocca dell'arca, per tentare adesso di salvarsi. Vanno verso la catastrofe annunciata, cioè il diluvio universale, in processione laica, non a coppie, come vorrebbe la tradizione, ma a singoli. Hanno l'aria che hanno: un po' preoccupata, un po' assonnata, molto concentrata, di nessuno si può dire che sia rassegnato all'apocalisse. La sventura che incombe sui loro passi – se fossero umani del 2012, verrebbe da immaginarli trafelati, suscettibili di smorfie deformanti e imprecazioni disarticolate al minimo alito di vento – è dissimulata con un grado di discrezione e self control a cui tutti dovremmo imparare a ispirarci nei momenti di disperazione.
Tanta è la comprensione per la precarietà del loro stato, quanta è la stupefazione e la tenerezza di fronte all'eleganza e alla compostezza con cui ciascun animale contrasta l'angoscia e attende il proprio turno. Ciascuno è fermo e al tempo stesso in moto perpetuo. Prevale un certo senso pratico sulla fretta di prendere posto come capita (perfino dentro l'arca regna un caos ordinato). [...]
C'è posto per tutti è un esempio antiretorico di convivenza riuscita. Quando stare uniti è un vero rompicapo, soggetti tra loro molto diversi, come qui, trovano nel tangram la perfetta soluzione. La geometria diventa il linguaggio per parlare la babele delle lingue e stringere incastri magici. Grazie all'intelligenza delle forme, i piccoli e i grandi, i morbidi e i duri, i molli e i rigidi, i grossi e i sottili, gli aperti e i chiusi, gli storti e i dritti, i leggeri e i pesanti, i caldi e i freddi eccetera, si fanno compagnia e socializzano. Anche perché il viaggio che si profila, dopo l'ultima pagina potrebbe essere infinito: perciò, meglio portarsi rispetto e volersi un po' bene.
Da Incastri magici, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2012.
Mister P
di Federica Iacobelli e Chiara Carrer, 2008
14,00 | Acquistalo su Topishop
C’è chi perde la testa per un suono e chi si invaghisce di cento occhi. La voce dei sentimenti è irrazionale. Sulla strada che porta da casa a scuola si scopre di tutto, anche l’amore. La storia di un bambino, di un pavone e di una pompa di benzina innamorati.
Un’ora di scuola per parlare d’amore. Un discorso amoroso, tra grandi e piccoli. Perché no? Ma come si fa, quando il pubblico è composto da bambini della scuola elementare e quando la materia da trattare si sposa così poco con i ragionamenti? E come si fa, quando anche per gli adulti è difficile riconoscere cosa sia amore e cosa no, e quando il seme dell’educazione sentimentale, in tutte le fasce d’età, sembra essersi estinto? Si comincia raccontando una storia. Per esempio, Mister P. [...] Dopo una copertina che tiene tutti col fiato sospeso, capo in avanti, occhi e bocche spalancate rivolte verso una visione che si immagina stupefacente, la storia parte. Con una confessione a bruciapelo.
«Mi manca, Mister P: i cento occhi, la sua coda colorata e quella strana buffa serenata! Insieme, ora potremmo raccogliere da terra le sue penne. O andare in cerca di un amore ricambiato […] Chissà dov’è finito, Mister P». In poche righe il testo informa che siamo nel mezzo di una ricerca. Ci vuole un viaggio all’indietro per risalire all’identità di Mister P e all’origine di un’amicizia molto speciale: quella tra un bambino e un animale. [...] Le passioni fanno breccia senza preavvisi. Ma non nascono dal nulla. Quella del protagonista per Mister P, è un’attrazione che ha per oggetto suoni, colori e ambienti molto precisi. «Accadde tutto nella mia stazione di servizio preferita», si legge. «Lì c’era quella bella pompa rossa che dà benzina e cigola e borbotta». Un bel giorno, un’apparizione: «era un uccello galliforme color verde rosmarino e blu cobalto con la coda come una ruota arcobaleno che girava e si gonfiava tanto. Era un pavone. Ed era molto bello».
Quest’ultima frase è in grassetto e compare altre due volte, a distanza di poche pagine, sempre in riferimento a Mister P. Perché una sottolineatura così vistosa? In generale, scegliere di raccontare una storia dove il bello ha un ruolo decisivo, provoca una domanda seria agli adulti che vivono in contatto con i bambini: perché tanta disponibilità nell’offrire loro i mille volti della bruttezza (i brutti esempi, il brutto linguaggio, le brutte maniere, i brutti gusti eccetera), e non spendersi, invece, in tentativi diversi: per esempio introdurli fin da piccoli, a una comunicazione affettiva con le persone, gli animali e le cose; a momenti ripetibili di godimento; a una grammatica esistenziale radicata sul bello, sullo stupore, sulla vicinanza corporea a ciò che più piace, in definitiva sull’amore?
Da Amori fatali, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2009.
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C’è chi perde la testa per un suono e chi si invaghisce di cento occhi. La voce dei sentimenti è irrazionale. Sulla strada che porta da casa a scuola si scopre di tutto, anche l’amore. La storia di un bambino, di un pavone e di una pompa di benzina innamorati.
Un’ora di scuola per parlare d’amore. Un discorso amoroso, tra grandi e piccoli. Perché no? Ma come si fa, quando il pubblico è composto da bambini della scuola elementare e quando la materia da trattare si sposa così poco con i ragionamenti? E come si fa, quando anche per gli adulti è difficile riconoscere cosa sia amore e cosa no, e quando il seme dell’educazione sentimentale, in tutte le fasce d’età, sembra essersi estinto? Si comincia raccontando una storia. Per esempio, Mister P. [...] Dopo una copertina che tiene tutti col fiato sospeso, capo in avanti, occhi e bocche spalancate rivolte verso una visione che si immagina stupefacente, la storia parte. Con una confessione a bruciapelo.
«Mi manca, Mister P: i cento occhi, la sua coda colorata e quella strana buffa serenata! Insieme, ora potremmo raccogliere da terra le sue penne. O andare in cerca di un amore ricambiato […] Chissà dov’è finito, Mister P». In poche righe il testo informa che siamo nel mezzo di una ricerca. Ci vuole un viaggio all’indietro per risalire all’identità di Mister P e all’origine di un’amicizia molto speciale: quella tra un bambino e un animale. [...] Le passioni fanno breccia senza preavvisi. Ma non nascono dal nulla. Quella del protagonista per Mister P, è un’attrazione che ha per oggetto suoni, colori e ambienti molto precisi. «Accadde tutto nella mia stazione di servizio preferita», si legge. «Lì c’era quella bella pompa rossa che dà benzina e cigola e borbotta». Un bel giorno, un’apparizione: «era un uccello galliforme color verde rosmarino e blu cobalto con la coda come una ruota arcobaleno che girava e si gonfiava tanto. Era un pavone. Ed era molto bello».
Quest’ultima frase è in grassetto e compare altre due volte, a distanza di poche pagine, sempre in riferimento a Mister P. Perché una sottolineatura così vistosa? In generale, scegliere di raccontare una storia dove il bello ha un ruolo decisivo, provoca una domanda seria agli adulti che vivono in contatto con i bambini: perché tanta disponibilità nell’offrire loro i mille volti della bruttezza (i brutti esempi, il brutto linguaggio, le brutte maniere, i brutti gusti eccetera), e non spendersi, invece, in tentativi diversi: per esempio introdurli fin da piccoli, a una comunicazione affettiva con le persone, gli animali e le cose; a momenti ripetibili di godimento; a una grammatica esistenziale radicata sul bello, sullo stupore, sulla vicinanza corporea a ciò che più piace, in definitiva sull’amore?
Da Amori fatali, di Giulia Mirandola, Catalogone, 2009.
C'era un ramo
Giovanna Zoboli, Francesca Zoboli, 2007
€13,00 | Acquistalo su Topishop
Una starna codalunga di 35 cm, circa un etto di peso, può arrivare a percorrere in un anno circa 50 mila chilometri. In questo c'è qualcosa di miracoloso e sorprendente che rende la migrazione degli uccelli uno dei fenomeni naturali che più affascinano l'uomo. Restiamo a bocca aperta per la capacità di orientamento di questi piccoli animali, per le distanze che percorrono, per la loro resistenza in volo. Ma anche perché in questi movimenti ciclici riconosciamo qualcosa che ci appartiene nel profondo: il nomadismo, lo spostamento per necessità materiali, il bisogno di adattarsi al ritmo delle stagioni, l'istinto a partire, l'emozione del ritorno. Giovanna Zoboli e sua sorella Francesca - artista, decoratrice, grafica, al suo felice esordio come illustratrice per ragazzi - attraverso la storia di un uccello migratore costruiscono un racconto pieno di poesia e stupore, sul viaggio e sulle stagioni, sulle grandi domande della vita e sull'inquietudine che ci spinge a esplorare, navigare, scoprire.
Nella prima tavola l'uccellino è nel suo nido, circondato dal grigio dell'inverno e dal bianco della neve. L'animale non capisce cosa stia succedendo, ma sente il bisogno di partire, di volare in alto verso le stelle, per trovare risposta alle sue domande. La migrazione diventa un viaggio alla scoperta del senso della vita, un percorso di crescita necessario e inevitabile che spinge l'uccellino ai confini dell'universo conosciuto, fra buchi neri, pianeti inesplorati e tempeste cosmiche. Finché nella penultima tavola l'animale fa ritorno al suo ramo. Ora lo sfondo è verde, come a primavera, e nel nido c'è un uovo bianco: dopo il viaggio si scopre la felicità al punto di partenza, dove tutto è uguale e, allo stesso tempo, diverso. Diverso perché sono cambiati gli occhi di colui che osserva, e che infine (nell'ultima tavola) è pronto a includere nel suo sguardo anche gli altri rami, con i loro nidi, gli uccelli e le uova. Un albo essenziale e misurato, nella scrittura come nell'uso del colore e nella composizione della pagina, ma allo stesso tempo un albo capace di emozionare il lettore perché narra una storia a più livelli, che è metafora dell'esistenza e del nostro viaggio attraverso la vita.
Un viaggio senza fine, Mara Pace, Andersen, giugno 2007.
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Una starna codalunga di 35 cm, circa un etto di peso, può arrivare a percorrere in un anno circa 50 mila chilometri. In questo c'è qualcosa di miracoloso e sorprendente che rende la migrazione degli uccelli uno dei fenomeni naturali che più affascinano l'uomo. Restiamo a bocca aperta per la capacità di orientamento di questi piccoli animali, per le distanze che percorrono, per la loro resistenza in volo. Ma anche perché in questi movimenti ciclici riconosciamo qualcosa che ci appartiene nel profondo: il nomadismo, lo spostamento per necessità materiali, il bisogno di adattarsi al ritmo delle stagioni, l'istinto a partire, l'emozione del ritorno. Giovanna Zoboli e sua sorella Francesca - artista, decoratrice, grafica, al suo felice esordio come illustratrice per ragazzi - attraverso la storia di un uccello migratore costruiscono un racconto pieno di poesia e stupore, sul viaggio e sulle stagioni, sulle grandi domande della vita e sull'inquietudine che ci spinge a esplorare, navigare, scoprire.
Nella prima tavola l'uccellino è nel suo nido, circondato dal grigio dell'inverno e dal bianco della neve. L'animale non capisce cosa stia succedendo, ma sente il bisogno di partire, di volare in alto verso le stelle, per trovare risposta alle sue domande. La migrazione diventa un viaggio alla scoperta del senso della vita, un percorso di crescita necessario e inevitabile che spinge l'uccellino ai confini dell'universo conosciuto, fra buchi neri, pianeti inesplorati e tempeste cosmiche. Finché nella penultima tavola l'animale fa ritorno al suo ramo. Ora lo sfondo è verde, come a primavera, e nel nido c'è un uovo bianco: dopo il viaggio si scopre la felicità al punto di partenza, dove tutto è uguale e, allo stesso tempo, diverso. Diverso perché sono cambiati gli occhi di colui che osserva, e che infine (nell'ultima tavola) è pronto a includere nel suo sguardo anche gli altri rami, con i loro nidi, gli uccelli e le uova. Un albo essenziale e misurato, nella scrittura come nell'uso del colore e nella composizione della pagina, ma allo stesso tempo un albo capace di emozionare il lettore perché narra una storia a più livelli, che è metafora dell'esistenza e del nostro viaggio attraverso la vita.
Un viaggio senza fine, Mara Pace, Andersen, giugno 2007.
Cicale
di Marta Iorio, 2012
€ 16 | Acquistalo su Topishop
Cicale, opera prima dell'autrice napoletana Marta Iorio, è il titolo più recente della collana Gli anni in tasca graphic che la casa editrice Topipittori dedica alle narrazioni autobiografiche a fumetti sull'esperienza dell'infanzia e dell'adolescenza.
Cicale è un'immersione nella memoria dell'autrice, un percorso tra i ricordi e le sensazioni della sua infanzia, trascorsa con una famiglia che ha cambiato spesso città, paese e abitudini.
La prima casa a Napoli, i giochi dalla terrazza, la personalità bizzarra di Zia Maria, il suono confuso di una lingua diversa, le affascinanti ed esplosive amiche della mamma: pagina dopo pagina seguiamo le vicende di Marta e della sua famiglia, che la incoraggia a fare esperienze nuove, a partire, esplorare.
Ma questa grande libertà si scontra con il dovere di tutti i bambini: la scuola - un luogo dove ogni giorno si fanno le stesse cose, un obbligo a cui non ci si può sottrarre. Così Marta si ribella, si ammala, si dispera. Ma a poco a poco, crescendo, capisce che a volte gli ostacoli "sono indizi per intraprendere un'altra strada...". E che "la strada adatta a costruire la propria forma, il proprio modo d'essere, è lunga e ricca di tentativi..."
Le morbide pennellate delle illustrazioni, ora a tutta pagina ora inserite come dei camei nel testo fitto, le tinte pastello, le forme arrotondate del lettering sembrano emergere direttamente della memoria dell'autrice, sprazzi di memoria che tornano in superficie.
Da Aspettando BilBolBul. Cicale di Marta Iorio, su Flashsumetto, 2013.
€ 16 | Acquistalo su Topishop
Cicale, opera prima dell'autrice napoletana Marta Iorio, è il titolo più recente della collana Gli anni in tasca graphic che la casa editrice Topipittori dedica alle narrazioni autobiografiche a fumetti sull'esperienza dell'infanzia e dell'adolescenza.
Cicale è un'immersione nella memoria dell'autrice, un percorso tra i ricordi e le sensazioni della sua infanzia, trascorsa con una famiglia che ha cambiato spesso città, paese e abitudini.
La prima casa a Napoli, i giochi dalla terrazza, la personalità bizzarra di Zia Maria, il suono confuso di una lingua diversa, le affascinanti ed esplosive amiche della mamma: pagina dopo pagina seguiamo le vicende di Marta e della sua famiglia, che la incoraggia a fare esperienze nuove, a partire, esplorare.
Ma questa grande libertà si scontra con il dovere di tutti i bambini: la scuola - un luogo dove ogni giorno si fanno le stesse cose, un obbligo a cui non ci si può sottrarre. Così Marta si ribella, si ammala, si dispera. Ma a poco a poco, crescendo, capisce che a volte gli ostacoli "sono indizi per intraprendere un'altra strada...". E che "la strada adatta a costruire la propria forma, il proprio modo d'essere, è lunga e ricca di tentativi..."
Le morbide pennellate delle illustrazioni, ora a tutta pagina ora inserite come dei camei nel testo fitto, le tinte pastello, le forme arrotondate del lettering sembrano emergere direttamente della memoria dell'autrice, sprazzi di memoria che tornano in superficie.
Da Aspettando BilBolBul. Cicale di Marta Iorio, su Flashsumetto, 2013.
Quanti siamo in casa
Isabel Minhós Martins e Madalena Matoso, 2011
€14,00 | Acquistalo su Topishop
«In casa siamo 6 teste. Ciascuna pensa alle proprie cose... Ma a volte pensano tutte alla stessa cosa. In casa siamo 78 dita, 20 ditini e 20 ditoni... In tutto fanno 118 unghie che la mamma ci fa tagliare tutte le domeniche. In casa siamo...» [...] Leggere il corpo attraverso le parole e le immagini di un libro e leggere il corpo con il proprio corpo, sono due cose diverse che Quanti siamo in casa riesce a combinare a regola d'arte. Il testo e le illustrazioni di Martins e Matoso, sono adatte a un viaggio sia scientifico, sia tattile, lungo il corpo. Esso comincia dalla testa, prosegue lungo gli arti superiori e il tronco e arriva ai piedi. [...] Un manuale di anatomia e fisiologia è concepito e studiato in modo diverso da Quanti siamo in casa. Raffrontare le qualità specifiche di queste due tipologie di libro, mette i lettori nella condizione di intendere quali e quanti modi esistono di rappresentare e raccontare il corpo. Pensiamo all'intestino disegnato dalla Matoso ispirato alle condutture di un moderno impianto idraulico, pensiamo alla serie El mapa de mi cuerpo di Genichiro Yagyu, edita fino a qualche anno fa dalla casa editrice spagnola Media Vaca, pensiamo agli studi anatomici di Leonardo da Vinci. [...] Quanti siamo in casa ha i connotati per essere considerato un “libro-laboratorio”. Questo oggetto dà il benvenuto a forme di gioco varie, dal gioco di leggere, al gioco del corpo che si tocca, dal gioco di toccare il corpo degli altri, al gioco di disegnarlo. [...] Quanti siamo in casa, perché? La matematica è la casa madre delle discipline scientifiche, c'è chi per questo la chiama “la regina delle scienze”. In questo libro i numeri prendono la parola fin dai risguardi, dove si nominano per trentadue volte numeri in progressione ascendente da 1 a 32, secondo una logica che è resa nota solo al termine della lettura: i personaggi della storia sono trentadue. Per quanto le cifre siano dati oggettivi, in questo libro sono una parte di testo che dispensa operazioni matematiche solo in seconda battuta. Prima di tutto, infatti, i numeri servono per raccontare una storia, da punti di vista molto soggettivi. Dichiariamo genericamente che tutti abbiamo 1 cuore, 2 mani, 2 orecchie, 20 unghie, 32 denti, eccetera, ma c'è chi capelli ne ha 3, chi di unghie ne ha 19 (perché una l'ha persa e sta ricrescendo), chi di denti ne ha meno, perché stanno spuntando o sono caduti, chi di nei ne ha 0. Il rapporto tra dimensione soggettiva e oggettiva è da approfondire, accontentarsi di una separazione astratta tra questi due estremi potrebbe essere fuorviante.
È un equilibrio magico quello che si ottiene nell'operazione di contare, tra astrazione e concretezza. Da questo aspetto, forse, dipende il fascino e il gusto che molte persone provano nel fare calcoli. Chi impara a contare sperimenta diverse vie, prima di calcolare su base astratta. Quanti siamo in casa, ricorre per questo scopo alle diverse parti del corpo, affinché possano valere come parametri di misurazione elementari, tuttavia efficaci. Con il corpo gli esseri umani misurano da secoli. [...] Quanti siamo in casa è un oggetto che principalmente fa divertire, ridere, giocare, cantare.
Da Una storia di tanti, di Giulia Mirandola, Catalogone 2011.
€14,00 | Acquistalo su Topishop
«In casa siamo 6 teste. Ciascuna pensa alle proprie cose... Ma a volte pensano tutte alla stessa cosa. In casa siamo 78 dita, 20 ditini e 20 ditoni... In tutto fanno 118 unghie che la mamma ci fa tagliare tutte le domeniche. In casa siamo...» [...] Leggere il corpo attraverso le parole e le immagini di un libro e leggere il corpo con il proprio corpo, sono due cose diverse che Quanti siamo in casa riesce a combinare a regola d'arte. Il testo e le illustrazioni di Martins e Matoso, sono adatte a un viaggio sia scientifico, sia tattile, lungo il corpo. Esso comincia dalla testa, prosegue lungo gli arti superiori e il tronco e arriva ai piedi. [...] Un manuale di anatomia e fisiologia è concepito e studiato in modo diverso da Quanti siamo in casa. Raffrontare le qualità specifiche di queste due tipologie di libro, mette i lettori nella condizione di intendere quali e quanti modi esistono di rappresentare e raccontare il corpo. Pensiamo all'intestino disegnato dalla Matoso ispirato alle condutture di un moderno impianto idraulico, pensiamo alla serie El mapa de mi cuerpo di Genichiro Yagyu, edita fino a qualche anno fa dalla casa editrice spagnola Media Vaca, pensiamo agli studi anatomici di Leonardo da Vinci. [...] Quanti siamo in casa ha i connotati per essere considerato un “libro-laboratorio”. Questo oggetto dà il benvenuto a forme di gioco varie, dal gioco di leggere, al gioco del corpo che si tocca, dal gioco di toccare il corpo degli altri, al gioco di disegnarlo. [...] Quanti siamo in casa, perché? La matematica è la casa madre delle discipline scientifiche, c'è chi per questo la chiama “la regina delle scienze”. In questo libro i numeri prendono la parola fin dai risguardi, dove si nominano per trentadue volte numeri in progressione ascendente da 1 a 32, secondo una logica che è resa nota solo al termine della lettura: i personaggi della storia sono trentadue. Per quanto le cifre siano dati oggettivi, in questo libro sono una parte di testo che dispensa operazioni matematiche solo in seconda battuta. Prima di tutto, infatti, i numeri servono per raccontare una storia, da punti di vista molto soggettivi. Dichiariamo genericamente che tutti abbiamo 1 cuore, 2 mani, 2 orecchie, 20 unghie, 32 denti, eccetera, ma c'è chi capelli ne ha 3, chi di unghie ne ha 19 (perché una l'ha persa e sta ricrescendo), chi di denti ne ha meno, perché stanno spuntando o sono caduti, chi di nei ne ha 0. Il rapporto tra dimensione soggettiva e oggettiva è da approfondire, accontentarsi di una separazione astratta tra questi due estremi potrebbe essere fuorviante.
È un equilibrio magico quello che si ottiene nell'operazione di contare, tra astrazione e concretezza. Da questo aspetto, forse, dipende il fascino e il gusto che molte persone provano nel fare calcoli. Chi impara a contare sperimenta diverse vie, prima di calcolare su base astratta. Quanti siamo in casa, ricorre per questo scopo alle diverse parti del corpo, affinché possano valere come parametri di misurazione elementari, tuttavia efficaci. Con il corpo gli esseri umani misurano da secoli. [...] Quanti siamo in casa è un oggetto che principalmente fa divertire, ridere, giocare, cantare.
Da Una storia di tanti, di Giulia Mirandola, Catalogone 2011.
Dame e cavalieri
di Marta Sironi e Francesca Zoboli, 2012
€ 12 | Acquistalo su Topishop
Dame e cavalieri, secondo volume della collana Piccola Pinacoteca Portatile, è un libro che dal nostro tempo spazia verso un altrove a tratti storico, a tratti fiabesco, lontano abbastanza dall'ora e dal qui, perché sogniamo a occhi aperti di essere chi non siamo: Ginevra d'Este, Battista Sforza, Federico da Montefeltro, Francesco I re di Francia, Maria I regina d'Inghilterra, sono alcuni esempi. Il solo fatto di pronunciare questi nomi ad alta voce, accanto a ritratti di donne e uomini che li rappresentano, è evocativo di atmosfere e ambienti che nel corso della lettura avvolgono chi entra nel libro, come il teatro è in grado di fare quando sul palco lo spettacolo comincia. [...] Il testo, alla pagina di Francesco I, offre un esempio di come si fa un set: «Quando il pittore era chiamato a fare il ritratto di un potente re, magari amico degli artisti, allora metteva in campo tutte le armi delle belle arti per ottenere un risultato strabiliante: si portava il sovrano nella stanza con le pareti broccate, gli si faceva indossare velluti e sete dalla fantasie cangianti, gli si chiedeva di esibire i più preziosi gioielli e, non contenti, gli si faceva indossare cappello, guanti, impugnare la spada chiedendo solo all'ultimo un semplice sorriso per immortalare l'immagine regale.» [...] Scrive Alexander Calder in un piccolo libro dedicato al disegno di animali, che «il desiderio di disegnare qualcosa è il miglior incentivo per fare un disegno». Per dare respiro assoluto al gesto di disegnare e colorare in modo soggettivo, Zoboli usa ripetere un'azione: quella di spogliare i ritratti originari da ogni elemento decorativo e di eliminare dal campo visivo qualsiasi dettaglio descrittivo che vada oltre il profilo in bianco e nero su sfondo bianco e qualche accessorio fondamentale (perle, gioielli, piume, veli). Anche se vestite, queste figure ci sembrano nude ed è grazie a questo intervallo neutro che interveniamo sui corpi e i costumi che indossano, li modifichiamo a piacere, a colori, a matita, tagliando e incollando, allestendo quello che potrebbe diventare un vero e proprio atelier sartoriale. A ciò vale la presenza di un repertorio di fogli senza parole, carte decorate sui toni del rosso, dell'oro, del blu, del marrone, del grigio, del nero, del viola, del verde, su cui sono stampate rose, ventagli, sigilli, conchiglie, anelli, stelle, diamanti, medaglie, fiocchi. [...] Dame e cavalieri è un libro laboratorio, adatto ad annodare i fili con l'artigianato e con l'alta moda. «Il giorno di mercato,» puntualizza il testo, «in un qualsiasi paese del mondo, gli uomini e le donne appaiono dame e cavalieri». I testi di Marta Sironi, fatta eccezione per le informazioni circoscritte alle opere (nome dell'autore, titolo, datazione, città e luogo di conservazione), parlano soprattutto di uomini e di donne. Nei loro ritratti, signore e signori, si raccontano. [...] Quello disegnato da Francesca Zoboli e scritto da Marta Sironi, è un viaggio nelle storie della pittura, del design, del potere, dei comportamenti, dei colori, delle donne, degli uomini, dei simboli, delle corti italiane ed europee nei secoli XIV, XV e XVI. La letteratura che tratta questi argomenti, solitamente è racchiusa in opere in tanti volumi, volumi di molte pagine, pagine con molto testo. Dame e cavalieri, nello spazio di 64 pagine, sfrutta la silhouette, la tintura e l'ornamento per dire quasi tutto.
Da Prova costumi, di Giulia Mirandola, Catalogone 2013
€ 12 | Acquistalo su Topishop
Dame e cavalieri, secondo volume della collana Piccola Pinacoteca Portatile, è un libro che dal nostro tempo spazia verso un altrove a tratti storico, a tratti fiabesco, lontano abbastanza dall'ora e dal qui, perché sogniamo a occhi aperti di essere chi non siamo: Ginevra d'Este, Battista Sforza, Federico da Montefeltro, Francesco I re di Francia, Maria I regina d'Inghilterra, sono alcuni esempi. Il solo fatto di pronunciare questi nomi ad alta voce, accanto a ritratti di donne e uomini che li rappresentano, è evocativo di atmosfere e ambienti che nel corso della lettura avvolgono chi entra nel libro, come il teatro è in grado di fare quando sul palco lo spettacolo comincia. [...] Il testo, alla pagina di Francesco I, offre un esempio di come si fa un set: «Quando il pittore era chiamato a fare il ritratto di un potente re, magari amico degli artisti, allora metteva in campo tutte le armi delle belle arti per ottenere un risultato strabiliante: si portava il sovrano nella stanza con le pareti broccate, gli si faceva indossare velluti e sete dalla fantasie cangianti, gli si chiedeva di esibire i più preziosi gioielli e, non contenti, gli si faceva indossare cappello, guanti, impugnare la spada chiedendo solo all'ultimo un semplice sorriso per immortalare l'immagine regale.» [...] Scrive Alexander Calder in un piccolo libro dedicato al disegno di animali, che «il desiderio di disegnare qualcosa è il miglior incentivo per fare un disegno». Per dare respiro assoluto al gesto di disegnare e colorare in modo soggettivo, Zoboli usa ripetere un'azione: quella di spogliare i ritratti originari da ogni elemento decorativo e di eliminare dal campo visivo qualsiasi dettaglio descrittivo che vada oltre il profilo in bianco e nero su sfondo bianco e qualche accessorio fondamentale (perle, gioielli, piume, veli). Anche se vestite, queste figure ci sembrano nude ed è grazie a questo intervallo neutro che interveniamo sui corpi e i costumi che indossano, li modifichiamo a piacere, a colori, a matita, tagliando e incollando, allestendo quello che potrebbe diventare un vero e proprio atelier sartoriale. A ciò vale la presenza di un repertorio di fogli senza parole, carte decorate sui toni del rosso, dell'oro, del blu, del marrone, del grigio, del nero, del viola, del verde, su cui sono stampate rose, ventagli, sigilli, conchiglie, anelli, stelle, diamanti, medaglie, fiocchi. [...] Dame e cavalieri è un libro laboratorio, adatto ad annodare i fili con l'artigianato e con l'alta moda. «Il giorno di mercato,» puntualizza il testo, «in un qualsiasi paese del mondo, gli uomini e le donne appaiono dame e cavalieri». I testi di Marta Sironi, fatta eccezione per le informazioni circoscritte alle opere (nome dell'autore, titolo, datazione, città e luogo di conservazione), parlano soprattutto di uomini e di donne. Nei loro ritratti, signore e signori, si raccontano. [...] Quello disegnato da Francesca Zoboli e scritto da Marta Sironi, è un viaggio nelle storie della pittura, del design, del potere, dei comportamenti, dei colori, delle donne, degli uomini, dei simboli, delle corti italiane ed europee nei secoli XIV, XV e XVI. La letteratura che tratta questi argomenti, solitamente è racchiusa in opere in tanti volumi, volumi di molte pagine, pagine con molto testo. Dame e cavalieri, nello spazio di 64 pagine, sfrutta la silhouette, la tintura e l'ornamento per dire quasi tutto.
Da Prova costumi, di Giulia Mirandola, Catalogone 2013
Doppio blu
di Bruno Tognolini, 2012
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Un uomo e un cane stanno seduti sulla spiaggia a guardare il mare. «Di che colore è?» chiede il cane al suo padrone. L'uomo quasi senza pensare risponde che è blu, poi riflette e prova a esser più preciso, perché quello che ha accanto è un quadrupede pignolo e, soprattutto, molto filosofo. «È verde acqua, poi turchese, poi azzurro e solo alla fine è blu, blu oltremare.» L'animale allora invita l'essere umano a riempire una bottiglietta con un po' di quell'acqua e ad osservarne il contenuto. «È trasparente» dice l'uomo al cane che finalmente può abbaiare di soddisfazione. Oltre il mare, su un'altra spiaggia, c'è un bambino che ammira quella stessa grande superficie che sa di sale, cerca con gli occhi il futuro, immagina l'adulto che diventerà e ha pupille piene d'incanto. L'uomo con il cane vede il bambino, il bambino vede l'uomo con il cane: un incrocio di sguardi ed è doppio blu...
Bruno Tognolini, cagliaritano, celebrato "poeta per l'infanzia" (e non soltanto) e autore di programmi televisivi come L'albero azzurro e La Melevisione, racconta la sua infanzia, alternando a dialoghi tra se stesso e il cane frammenti del tempo in cui ha saputo forgiare il proprio mondo e l'adulto che è diventato. Perché il piccolo Bruno ha avuto il potere di dare il nome alle cose e di inventare un universo: a quelle luci che lievi entravano dalle finestre quando finiva la notte e si trasformavano in matasse luminose in movimento sul soffitto ha dato il nome di Arie e ha fatto diventare la preghiera “Gesù mi metto nelle tue mani” una storia dove il protagonista era Gesù Mimetto. Ogni bambino ha una storia simile tra i ricordi, ma non sempre ne ha memoria perché durante la crescita non tutto va per il verso giusto. Capita a volte che i grandi deraglino dai binari così pazientemente preparati da se stessi quando erano bambini e magari chi voleva fare l'astronauta finisce immusonito e vestito di grigio dietro una scrivania, privo del bimbo che è stato. Tognolini non solo non è mai uscito da quelle rotaie, ma continua a costruirle, sfrecciandoci sopra con la velocità supersonica della sua fantasia.
Da Doppio blu, recensione di Amarilli Novel, per il sito Mangialibri.
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Un uomo e un cane stanno seduti sulla spiaggia a guardare il mare. «Di che colore è?» chiede il cane al suo padrone. L'uomo quasi senza pensare risponde che è blu, poi riflette e prova a esser più preciso, perché quello che ha accanto è un quadrupede pignolo e, soprattutto, molto filosofo. «È verde acqua, poi turchese, poi azzurro e solo alla fine è blu, blu oltremare.» L'animale allora invita l'essere umano a riempire una bottiglietta con un po' di quell'acqua e ad osservarne il contenuto. «È trasparente» dice l'uomo al cane che finalmente può abbaiare di soddisfazione. Oltre il mare, su un'altra spiaggia, c'è un bambino che ammira quella stessa grande superficie che sa di sale, cerca con gli occhi il futuro, immagina l'adulto che diventerà e ha pupille piene d'incanto. L'uomo con il cane vede il bambino, il bambino vede l'uomo con il cane: un incrocio di sguardi ed è doppio blu...
Bruno Tognolini, cagliaritano, celebrato "poeta per l'infanzia" (e non soltanto) e autore di programmi televisivi come L'albero azzurro e La Melevisione, racconta la sua infanzia, alternando a dialoghi tra se stesso e il cane frammenti del tempo in cui ha saputo forgiare il proprio mondo e l'adulto che è diventato. Perché il piccolo Bruno ha avuto il potere di dare il nome alle cose e di inventare un universo: a quelle luci che lievi entravano dalle finestre quando finiva la notte e si trasformavano in matasse luminose in movimento sul soffitto ha dato il nome di Arie e ha fatto diventare la preghiera “Gesù mi metto nelle tue mani” una storia dove il protagonista era Gesù Mimetto. Ogni bambino ha una storia simile tra i ricordi, ma non sempre ne ha memoria perché durante la crescita non tutto va per il verso giusto. Capita a volte che i grandi deraglino dai binari così pazientemente preparati da se stessi quando erano bambini e magari chi voleva fare l'astronauta finisce immusonito e vestito di grigio dietro una scrivania, privo del bimbo che è stato. Tognolini non solo non è mai uscito da quelle rotaie, ma continua a costruirle, sfrecciandoci sopra con la velocità supersonica della sua fantasia.
Da Doppio blu, recensione di Amarilli Novel, per il sito Mangialibri.
Un
uomo ed un cane stanno seduti sulla spiaggia a guardare il mare. «Di
che colore è?» chiede il cane al suo padrone. L'uomo quasi senza pensare
risponde che è blu, poi riflette e prova ad esser più preciso, perché
quello che ha accanto è un quadrupede pignolo e, soprattutto, molto
filosofo. «È verde acqua, poi turchese, poi azzurro e solo alla fine è
blu, blu oltremare.» L'animale allora invita l'essere umano a riempire
una bottiglietta con un po' di quell'acqua e ad osservarne il contenuto.
«È trasparente» dice l'uomo al cane che finalmente può abbaiare di
soddisfazione. Oltre il mare, su un'altra spiaggia, c'è un bambino che
ammira quella stessa grande superficie che sa di sale, cerca con gli
occhi il futuro, immagina l'adulto che diventerà e ha pupille piene
d'incanto. L'uomo con il cane vede il bambino, il bambino vede l'uomo
con il cane: un incrocio di sguardi ed è doppio blu...
Bruno Tognolini, cagliaritano, celebrato "poeta per l'infanzia" (e non soltanto) ed autore di programmi televisivi come L'albero azzurro e La Melevisione, racconta la sua infanzia, alternando a dialoghi tra se stesso ed il cane frammenti del tempo in cui ha saputo forgiare il proprio mondo e l'adulto che è diventato. Perché il piccolo Bruno ha avuto il potere di dare il nome alle cose e di inventare un universo: a quelle luci che lievi entravano dalle finestre quando finiva la notte e si trasformavano in matasse luminose in movimento sul soffitto ha dato il nome di Arie e ha fatto diventare la preghiera “Gesù mi metto nelle tue mani” una storia dove il protagonista era Gesù Mimetto. Ogni bambino ha una storia simile tra i ricordi, ma non sempre ne ha memoria perché durante la crescita non tutto va per il verso giusto. Capita a volte che i grandi deraglino dai binari così pazientemente preparati da se stessi quando erano bambini e magari chi voleva fare l'astronauta finisce immusonito e vestito di grigio dietro una scrivania, privo del bimbo che è stato. Tognolini non solo non è mai uscito da quelle rotaie, ma continua a costruirle, sfrecciandoci sopra con la velocità supersonica della sua fantasia. - See more at: http://www.mangialibri.com/bambini-ragazzi/doppio-blu#sthash.oPmaF2R4.dpuf
Bruno Tognolini, cagliaritano, celebrato "poeta per l'infanzia" (e non soltanto) ed autore di programmi televisivi come L'albero azzurro e La Melevisione, racconta la sua infanzia, alternando a dialoghi tra se stesso ed il cane frammenti del tempo in cui ha saputo forgiare il proprio mondo e l'adulto che è diventato. Perché il piccolo Bruno ha avuto il potere di dare il nome alle cose e di inventare un universo: a quelle luci che lievi entravano dalle finestre quando finiva la notte e si trasformavano in matasse luminose in movimento sul soffitto ha dato il nome di Arie e ha fatto diventare la preghiera “Gesù mi metto nelle tue mani” una storia dove il protagonista era Gesù Mimetto. Ogni bambino ha una storia simile tra i ricordi, ma non sempre ne ha memoria perché durante la crescita non tutto va per il verso giusto. Capita a volte che i grandi deraglino dai binari così pazientemente preparati da se stessi quando erano bambini e magari chi voleva fare l'astronauta finisce immusonito e vestito di grigio dietro una scrivania, privo del bimbo che è stato. Tognolini non solo non è mai uscito da quelle rotaie, ma continua a costruirle, sfrecciandoci sopra con la velocità supersonica della sua fantasia. - See more at: http://www.mangialibri.com/bambini-ragazzi/doppio-blu#sthash.oPmaF2R4.dpuf
Un
uomo ed un cane stanno seduti sulla spiaggia a guardare il mare. «Di
che colore è?» chiede il cane al suo padrone. L'uomo quasi senza pensare
risponde che è blu, poi riflette e prova ad esser più preciso, perché
quello che ha accanto è un quadrupede pignolo e, soprattutto, molto
filosofo. «È verde acqua, poi turchese, poi azzurro e solo alla fine è
blu, blu oltremare.» L'animale allora invita l'essere umano a riempire
una bottiglietta con un po' di quell'acqua e ad osservarne il contenuto.
«È trasparente» dice l'uomo al cane che finalmente può abbaiare di
soddisfazione. Oltre il mare, su un'altra spiaggia, c'è un bambino che
ammira quella stessa grande superficie che sa di sale, cerca con gli
occhi il futuro, immagina l'adulto che diventerà e ha pupille piene
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con il cane: un incrocio di sguardi ed è doppio blu...
Bruno Tognolini, cagliaritano, celebrato "poeta per l'infanzia" (e non soltanto) ed autore di programmi televisivi come L'albero azzurro e La Melevisione, racconta la sua infanzia, alternando a dialoghi tra se stesso ed il cane frammenti del tempo in cui ha saputo forgiare il proprio mondo e l'adulto che è diventato. Perché il piccolo Bruno ha avuto il potere di dare il nome alle cose e di inventare un universo: a quelle luci che lievi entravano dalle finestre quando finiva la notte e si trasformavano in matasse luminose in movimento sul soffitto ha dato il nome di Arie e ha fatto diventare la preghiera “Gesù mi metto nelle tue mani” una storia dove il protagonista era Gesù Mimetto. Ogni bambino ha una storia simile tra i ricordi, ma non sempre ne ha memoria perché durante la crescita non tutto va per il verso giusto. Capita a volte che i grandi deraglino dai binari così pazientemente preparati da se stessi quando erano bambini e magari chi voleva fare l'astronauta finisce immusonito e vestito di grigio dietro una scrivania, privo del bimbo che è stato. Tognolini non solo non è mai uscito da quelle rotaie, ma continua a costruirle, sfrecciandoci sopra con la velocità supersonica della sua fantasia. - See more at: http://www.mangialibri.com/bambini-ragazzi/doppio-blu#sthash.oPmaF2R4.dpuf
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filosofo. «È verde acqua, poi turchese, poi azzurro e solo alla fine è
blu, blu oltremare.» L'animale allora invita l'essere umano a riempire
una bottiglietta con un po' di quell'acqua e ad osservarne il contenuto.
«È trasparente» dice l'uomo al cane che finalmente può abbaiare di
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Bruno Tognolini, cagliaritano, celebrato "poeta per l'infanzia" (e non soltanto) ed autore di programmi televisivi come L'albero azzurro e La Melevisione, racconta la sua infanzia, alternando a dialoghi tra se stesso ed il cane frammenti del tempo in cui ha saputo forgiare il proprio mondo e l'adulto che è diventato. Perché il piccolo Bruno ha avuto il potere di dare il nome alle cose e di inventare un universo: a quelle luci che lievi entravano dalle finestre quando finiva la notte e si trasformavano in matasse luminose in movimento sul soffitto ha dato il nome di Arie e ha fatto diventare la preghiera “Gesù mi metto nelle tue mani” una storia dove il protagonista era Gesù Mimetto. Ogni bambino ha una storia simile tra i ricordi, ma non sempre ne ha memoria perché durante la crescita non tutto va per il verso giusto. Capita a volte che i grandi deraglino dai binari così pazientemente preparati da se stessi quando erano bambini e magari chi voleva fare l'astronauta finisce immusonito e vestito di grigio dietro una scrivania, privo del bimbo che è stato. Tognolini non solo non è mai uscito da quelle rotaie, ma continua a costruirle, sfrecciandoci sopra con la velocità supersonica della sua fantasia. - See more at: http://www.mangialibri.com/bambini-ragazzi/doppio-blu#sthash.oPmaF2R4.dpuf
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